Parole e segreti di Talleyrand, diavolo custode della Francia

A cena con il diavolo è il titolo di una delizioso film francese del 1992 ambientato a Parigi, pochi giorni dopo la battaglia di Waterloo, mentre le truppe inglesi, prussiane e russe sono alle porte. La storia, interpretata magistralmente da Claude Rich e Claude Brasseur, si svolge nel castello di Talleyrand. I protagonisti sono il principe di Talleyrand, per l’appunto, ministro degli Esteri di Napoleone e già notabile dell’Antico regime, e il presidente del governo provvisorio Joseph Fouché, ministro della polizia durante i Cento Giorni. I due, durante una raffinata libagione, attraverso sottili argomentazioni e schermaglie dialettiche si accordano per supportarsi a vicenda nel mantenimento delle proprie posizioni di potere, convinti, come sono, che il mutare dei regimi politici non debba influire negativamente sui loro interessi personali e sulle fortune della Francia. La storia va avanti, i regimi cambiano, ma la «buona cucina francese» rimarrà, sempre, la stessa. È una metafora del potere e una giustificazione teorica della capacità di transitare da un sistema politico a un altro sistema facendo, sì, i propri interessi personali ma anche quelli del paese.
Talleyrand, il «diavolo zoppo» fu sempre convinto di ciò. C’è un passaggio nelle sue Memorie (ora pubblicate in versione italiana dall’editore Nino Aragno in una splendida edizione curata da Vito Sorbello; 5 voll., pagg. 1728, euro 150) - che teorizza questo principio: «mi misi a disposizione degli eventi e \ tutto mi sarebbe stato conveniente. La Rivoluzione prometteva nuovi destini alla nazione; la seguii nella sua marcia e ne tentai le sorti. Le consacrai il tributo di tutte le mie attitudini, deciso a servire il mio Paese per se stesso, e posi tutte le mie speranze nei principii costituzionali che si riteneva così prossimi da raggiungere. Questo spiega perché e come, a più riprese, io sia entrato, uscito, rientrato negli affari, e anche il ruolo che vi ho giocato».
Già, perché Charles Maurice de Talleyrand, principe di Benevento, rampollo di una delle più nobili e antiche famiglie di Francia fu proprio questo: un uomo di grande, grandissima intelligenza e di eccezionale capacità manovriera oltre che un mostro di abilità diplomatica. Fu capace di inserirsi e transitare fra le pieghe della storia. Riuscì a passare indenne fra tutti i più drammatici rivolgimenti politici, arricchendosi, acquistando potere, ma anche salvaguardando gli interessi del suo Paese. Al Congresso di Vienna, per esempio, dopo la caduta di Napoleone che lui stesso aveva aiutato a conquistare il potere e del quale era stato un prezioso collaboratore, Talleyrand riuscì nel vero e proprio miracolo di evitare che la Francia - responsabile, durante il periodo rivoluzionario e napoleonico delle turbolenze che avevano messo a ferro e fuoco per tanto tempo l’Europa - fosse posta sul banco degli accusati. Ottenne, anzi, al contrario, con l’aiuto e l’appoggio del principe di Metternich, che, grazie al «principio di legittimità», fosse riconosciuta, una volta restaurata la monarchia dei Borboni, come un fattore imprescindibile per la salvaguardia dell’equilibrio internazionale.
L’uomo Talleyrand non lasciava spazio a sentimenti di indifferenza. Chi lo conobbe non poté fare a meno di ammirarlo, criticarlo, temerlo. Il diplomatico americano Gouverneur Morris, che fu a Parigi nella fase più calda della rivoluzione francese, scrisse di lui che gli sembrava «acuto, scaltro, ambizioso e malvagio», mentre il conte di Mirabeau gli disse chiaro e tondo in faccia: «Per un po’ di denaro, Talleyrand si venderebbe l’anima e avrebbe ragione perché scambierebbe il proprio letame con dell’oro». Non meno duro fu Lord Grenville che lo conobbe a Londra: «È sgradevole, un carattere malamente ingannatore. Non ha rettitudine né di indole né di cuore». E Giuseppina, allora moglie di Napoleone, indicandolo mentre confabulava col marito, disse al cognato Giuseppe Bonaparte: «Quello zoppo mi fa paura; affrettatevi a interrompere questo colloquio troppo prolungato». Persino Napoleone, un giorno, irritato gli disse a brutto muso: «Siete merda in un guanto di seta». Ed era quello stesso Napoleone che spiegava il suo rapporto con il potente ministro degli Esteri in questi termini: «Mi serviva un aristocratico che fosse in grado di usare un’insolenza principesca».
Eppure, Talleyrand aveva un grande fascino. Malgrado la sua menomazione. Era rimasto zoppo, infatti, per una caduta dal seggiolone dovuta alla disattenzione di una balia impegnata in conversari amorosi. Un fatto increscioso che lo aveva costretto a intraprendere, anziché quella delle armi, la carriera ecclesiastica, per la quale non aveva nessuna vocazione. E che non gli impedì, va precisato, di darsi subito alla bella vita: le donne gli piacevano e gli cadevano fra le braccia e le lenzuola con estrema facilità. Tutte, e di ogni tipo e ceto sociale: nobili e borghesi, giovani e meno giovani. La sua galanteria, unità all’arguzia, era parte del fascino che lo rendeva irresistibile e popolare nei salotti mondani. Qui, le sue battute, irriverenti e sferzanti, spesso ciniche, rimbalzavano di bocca in bocca. Eccone alcune: «Bisogna guardarsi dal primo impulso: è quasi sempre onesto»: «Posso perdonare alle persone di non essere del mio parere, ma non perdono loro di averne uno»; «L’uomo è un’intelligenza ostacolata dagli organi».
Talleyrand fu, proprio, intelligenza allo stato puro: accoppiata con il cinismo, il realismo politico, il gusto per l’intrigo, la passione per gli affari, la capacità quasi rabdomantica di saper cogliere le linee di tendenza della storia. Tuttavia, il suo amoralismo trovò un limite nella convinzione che non si dovessero discutere la grandezza storica e l’importanza politica del proprio Paese. E che si dovesse, quindi, operare per rafforzarle. Forse perché il «douce vivre» da lui amato e praticato era un prodotto tipico della civiltà francese.
Uomo da mille volti, Talleyrand diceva di se stesso: «Credono che sia immorale e machiavellico, ma sono soltanto impassibile e sdegnoso».

E, con un pizzico di vanagloriosa civetteria, aggiungeva: «desidero che nei secoli si continui a discutere di quello che sono stato, di ciò che ho pensato e voluto». Le sue memorie, deliziose e irriverenti, in bilico spesso tra verità e bugia, rispondono al desiderio del loro autore.

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