Il lungo viaggio che porterà Veltroni prima alla guida del Partito democratico e poi alla candidatura a Palazzo Chigi è partito ieri da Barbiana, il borgo fiorentino in cui don Milani fondò la scuola-icona del Sessantotto. Il pretesto era il quarantennale dell’uscita di Lettera a una professoressa. Ma è evidente che il sindaco di Roma ha voluto attribuire alla visita di ieri il valore simbolico di una prima tappa. Giocando sulle parole, ha detto appunto «il mio viaggio è partito da qui»: facendo credere che per «viaggio» intendeva il suo percorso culturale cominciato da ragazzo; ma facendo capire che è ben altro il percorso cui allude.
La scelta del luogo è azzeccata quant’altre mai. Per diventare leader del centrosinistra, Veltroni sa che deve mettere insieme gli ex comunisti, la sinistra radicale e un buon numero di cattolici. Don Milani, o meglio l’immagine che è passata di lui, incarna tutto questo: il Pci (scriveva su Rinascita), i movimenti extraparlamentari (era suo lo slogan «l’obbedienza non è più una virtù», parola d’ordine della rivolta contro ogni autorità) e la Chiesa (contestatore quanto si vuole, don Milani era un uomo di grandissima fede).
Ma sbaglierebbe chi pensasse che nella scelta di don Milani come tutor ci sia l’adesione al cosiddetto cattocomunismo. Sbaglierebbe. Il cattocomunismo è, semmai, l’idea ispiratrice di Prodi, cioè di un allievo di Dossetti. È una ideologia che ha segnato a lungo la Chiesa e la politica italiana: ma è ormai roba vecchia. L’ideologia prossima ventura del centrosinistra è ben altra, ben più avvolgente e ben più efficace nel creare consenso: il veltronismo, appunto.
Di che cosa si tratta? Semplice. Veltroni non si accontenta di mettere d’accordo due anime del Paese, i cattolici e i comunisti. Vuole tutti. Prendiamo a prestito, per spiegarci meglio, le parole scritte un mese fa dalla Fondazione Magna Carta: «Il veltronismo è essenzialmente il pluralismo in un uomo solo. Veltroni da solo garantisce quello che una volta si chiamava l’arco costituzionale; potrebbe andare a Porta a porta, occupare tutte le sedie e il dibattito sarebbe assicurato. Per Veltroni la par condicio è solo un problema di ripartizione interna della sua coscienza. Il suo risultato ideale è un ballottaggio con sé medesimo».
Seguendo questa logica, la scelta di don Milani è perfetta. La figura del prete fiorentino in fondo non scontenta nessuno, la si può guardare dalla prospettiva che si vuole. Fu il simbolo dei preti-contestatori: ma in quegli anni turbolenti del post-Concilio, quando tanti sacerdoti si misero i jeans, egli non volle mai rinunciare alla talare lunga.
E poi, tanto per dirne un’altra. Sempre ieri il presidente della Fondazione don Milani, Michele Gesualdi, ha chiesto al Papa la riabilitazione del fondatore. Il Vaticano lo aveva censurato per un suo libro del 1958 che s’intitolava Esperienze pastorali. Ecco qua, dunque, lo stereotipo del prete progressista condannato da una Chiesa reazionaria. Eppure anche Angelo Roncalli - allora ancora patriarca di Venezia, ma destinato a diventare pochi mesi dopo quel «papa buono» così gradito ai veltroniani - così scrisse riguardo a Esperienze pastorali: «L’autore del libro deve essere un pazzo scappato dal manicomio».
E poi, vogliamo parlare di Pier Paolo Pasolini? Anche lui nei giorni scorsi è stato citato da Veltroni come maestro fondamentale, uomo di svolta. Veltroni ha addirittura lanciato un appello affinché si riapra l’inchiesta sulla sua morte, convinto com’è che dietro al ragazzo di borgata che uccise il Poeta c’erano oscure forze della Reazione. Pasolini e don Milani, ecco insomma i due maestri di Veltroni. Eppure fu proprio Pasolini uno dei primi a bocciare l’esperienza della scuola di Barbiana, contestando duramente i suoi animatori: «La vostra posizione è più simile al maoismo che alla nuova sinistra americana... più simile alle posizioni delle Guardie Rosse».
Ma per Veltroni far andare d’accordo don Milani con Pasolini è un gioco da ragazzi. A Roma ha messo insieme il membro dell’Opus Dei Alberto Michelini con il leader dei centri sociali Nunzio D’Erme. Ha convinto cinque consiglieri (su sette) di Forza Italia a passare con lui. Tifa per la Juventus ma anche per la Roma. Veltroni è tutto, «è madre Teresa di Calcutta e Fidel Castro, è Sofri e Calabresi, Kennedy e Nixon, cura e malattia».
Miracoli della bontà. Perché il vero collante del veltronismo è questo, la bontà. Non importa se sia reale o no. È che Veltroni rassicura. Ha la faccia del compagno di banco che avresti voluto avere, e anche di quello che fa attraversare le vecchiette.
Michele Brambilla
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