Partito democratico rallentato dall’effetto Prodi

Arturo Diaconale

Ora o mai più. Romano Prodi e Arturo Parisi sono convinti che o il Partito Democratico nasce entro i prossimi mesi oppure non vedrà mai la luce. La convinzione si fonda sulla consapevolezza della assoluta irripetibilità delle condizioni favorevoli al progetto presenti nell'attuale fase politica. Il leader del centrosinistra è a Palazzo Chigi. Margherita e Ds non possono in alcun caso fare a meno di lui se non correndo il rischio di provocare una crisi di governo destinata a sfociare nelle elezioni anticipate. Di conseguenza, o si forza la mano adesso che Prodi è al governo e i due maggiori partiti dell'Unione sono terrorizzati dalla paura di tornare alle urne, oppure il treno della costituzione del Partito Democratico guidato dal «Professore» passa e non torna più.
È difficile non dare ragione alle considerazioni che spingono ad accelerare al massimo il processo di formazione del nuovo soggetto politico che dovrebbe nascere dall'unione tra Ds, Margherita e forze minori dell'area riformista del centrosinistra. Il presidente del Consiglio e il suo ministro degli Esteri sanno che il cemento del potere è più forte di qualsiasi spirito di bandiera o tendenza all'autonomia presenti all'interno della parte della maggioranza potenzialmente unionista. E, dal loro punto di vista, fanno benissimo a premere su Francesco Rutelli e su Piero Fassino per costringerli a dare il via all'operazione che darebbe finalmente al presidente del Consiglio la possibilità di poter disporre di un proprio partito.
Ma, per singolare paradosso, è proprio la generale certezza che Prodi possiede in questa fase gli strumenti più efficaci per costruire il Partito Democratico a propria immagine e somiglianza, che può rappresentare il principale ostacolo all'operazione.
Più le insistenze degli interessati si moltiplicano e la prospettiva unitaria diventa concreta, infatti, più crescono le resistenze e spuntano le obiezioni e i distinguo. Nei ds non ci sono solo Fabio Mussi e Cesare Salvi a frenare il segretario Piero Fassino. Anche Massimo D’Alema appare contrario a qualsiasi accelerazione destinata a mettere a rischio la matrice socialista della Quercia. Al tempo stesso, nella Margherita non solo i popolari della «vecchia guardia» alla Ciriaco De Mita ma anche il ministro della Cultura Francesco Rutelli guardano con preoccupazione alle spinte prodiane. Nessuno di loro vuole rinunciare alla propria autonomia politica regalando a Prodi il ruolo di sovrano assoluto ed intoccabile del futuro partito egemone del centrosinistra.
Ma come conciliare i fermenti autonomistici dei dirigenti diessini e margheriti con il rischio paventato da Prodi che la mancata nascita del partito democratico potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza dell'attuale maggioranza di governo?
La risposta è semplice. E già incomincia a serpeggiare all'interno della coalizione di governo in vista delle difficili prove della ripresa autunnale. E se il Partito Democratico invece di nascere sulla base del governo Prodi prendesse il via sulle ceneri dell'esecutivo del «Professore»? Qualcuno, in sostanza, incomincia a pensare che Prodi al governo e alla guida del partito unitario della sinistra sarebbe troppo ingombrante.

E riflette su quanto sarebbe meglio se il Partito Democratico nascesse senza Prodi ed il suo eventuale «doppio incarico».

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