E tre. Dopo il ritiro dall'Irak e dopo l'ambiguo compromesso nell'Unione sull'Afghanistan, Romano Prodi ha compiuto un passo indietro anche nel giudizio su Israele. Dal suo intervento al congresso dell'Unione delle comunità ebraiche, cioè un importante atto ufficiale, è infatti riemerso quel vecchio atteggiamento di equidistanza che Massimo D'Alema ha definito «equivicinanza» senza però spiegare il senso della formula. Resta cioè l'equidistanza tra una delle più vecchie democrazie del Mediterraneo, appunto quella israeliana, e un regime palestinese il cui segno è ora impresso da un movimento politico-terroristico come Hamas.
Non c'è da stupirsi. Il presidente del Consiglio guida una coalizione in cui esercitano un potere d'interdizione forze e culture per le quali il terrorismo è sinonimo di resistenza e per le quali il vulnus alla pace è costituito dalla sola esistenza dello Stato ebraico e dalla politica mediorientale dell'amministrazione Bush. E se questo non bastasse, il presidente del Consiglio fu anche il presidente della Commissione di Bruxelles che formulò il pregiudizio negativo sulla «barriera difensiva», sottovalutando la minaccia costituita dalla seconda intifada. C'è dunque una continuità nella sua visione, che nelle scelte internazionali dell'Italia equivale a non distinguere tra democrazia e anti-democrazia proprio nell'area mediorientale, dove il conflitto è oggi più duro e sanguinoso.
Il suo discorso di ieri Prodi avrebbe potuto pronunciarlo, negli stessi termini, dieci anni fa. Ha assicurato l'impegno «a contribuire a questa indispensabile anche se lontana pace», ma quale governo ha mai dichiarato di lavorare per la guerra? Ha detto che Israele ha il diritto di vivere in sicurezza, ma come si può omettere un riferimento che è condizione indispensabile dell'esistenza di ogni Stato? Ha aggiunto che la stella di Davide è «alla radice dell'identità europea», ma c'è bisogno di ricordare che la negazione di questo assunto storico ha prodotto una delle maggiori tragedie che il continente ha vissuto nel Novecento?
Sono eterne ovvietà. Da questa genericità la politica estera italiana era uscita negli ultimi anni e il rapporto con Israele ne è stata una delle più forti testimonianze, proprio perché ha incrinato un'ideologia che privilegiava il sostegno all'indipendentismo palestinese prescindendo dalle sue intenzioni, dai suoi metodi e dai suoi valori di riferimento. Oggi questa ideologia è tornata al governo ed è successo proprio nel momento in cui, in Medio Oriente, ha ripreso forza il vecchio «rifiuto» del diritto di Israele non solo alla sua sicurezza, ma alla sua stessa esistenza. Nel 2006 c'è o no il problema rappresentato dal regime iraniano e dalla sua ambizione nucleare? C'è o no la grande questione posta da Hamas che usa nello stesso tempo la rendita di posizione palestinese e i suoi metodi terroristici? E, proprio in questi giorni, non verifichiamo sul campo come il ritiro unilaterale da Gaza, deciso da Sharon e da Olmert, non sia stato vissuto all'interno della stessa Anp come un incoraggiamento alla pace, ma come un'occasione di rivincita, con il lancio di razzi e con l'inaugurazione della strategia dei rapimenti?
Per Romano Prodi, come per Massimo D'Alema, questa crisi non sembra esistere.
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