Pat Metheny: nel cd «Song XX» sei vecchi brani mai incisi

Dopo vent’anni pubblicati i lavori di Coleman lasciati fuori da «Song X»

Franco Fayenz

da Milano

Esce anche in Italia il cd Song XX di Pat Metheny per l’etichetta Nonesuch. Con il celebre chitarrista suonano Ornette Coleman al sax alto e al violino, Charlie Haden al contrabbasso, Jack Dejohnette e Denardo Coleman alla batteria: una formazione da sogno. Ma il musicofilo esperto ricorda bene che vent’anni fa lo stesso quintetto licenziò Song X, con una x soltanto. Che cosa è successo? Raggiungiamo Metheny al telefono perché ce lo dica lui.
«È semplice» risponde ridendo. «Nel dicembre 1985, al Power Station Studio di New York, fummo costretti a scegliere per Song X otto brani, quelli che ci potevano stare nell’ellepì originale, accolto dovunque con molto favore. Ma noi ne avevamo registrati degli altri, con l’entusiasmo che si ha quando ci si trova bene insieme. Adesso i brani sono 14: gli inediti sono i primi sei della lista. È stata un’idea mia, e credo sia stata una buona idea».
Il nuovo titolo, Song XX, sembra molto indovinato.
«Serve a differenziarlo dal precedente quel tanto che basta, e a sottolineare che da allora sono passati vent’anni. La copertina è la stessa, con la sola aggiunta di un involucro trasparente sul quale campeggiano due grandi x gialle e la scritta Twentieth Anniversary in piccoli caratteri neri. Perciò ho anche risparmiato sui costi».
Lo sa che il quotidiano francese Le Monde ha dedicato ieri l’altro a Song XX una recensione entusiastica?
«Sì, se n’è accorto il mio agente italiano. Ne sono davvero felice. Anzi ne siamo felici, perché mia moglie è francese».
C’è differenza fra i sei brani «nuovi» e gli otto originali? In altre parole, erano stati scartati anche con un criterio stilistico?
«Quelli inclusi adesso sono tutti di Ornette Coleman, mentre fra i precedenti ce n’erano tre scritti a quattro mani da lui e da me. In linea generale, i brani scelti nel 1985 risentivano di più del jazz informale che era ancora vicino nel tempo, basti ascoltare soprattutto Endangered Species. I nuovi sono più melodici e un po’ più dolci».
Che cosa rappresenta Coleman per lei?
«Un punto di riferimento permanente, un valore assoluto. Coleman è un genio, il jazz che segue la fine di Charlie Parker non si può nemmeno pensare senza di lui. Credo che nei miei anni formativi mi abbia influenzato più di chitarristi come Wes Montgomery e Jim Hall. Lo provano i miei primi dischi, Jaco con Paul Bley, Jaco Pastorius e Bruce Ditmas per la Improvising Artists Inc. di Bley e Bright Size Life, il primo a mio nome e il primo per Ecm».
A proposito. Lei, fra il 1975 e il 1984, realizzò per la Ecm ben undici album. Per quale motivo decise di andarsene? Il divorzio fu segnato proprio da Song X.
«Dobbiamo rapportarci all’epoca. Io avevo progetti in varie direzioni stilistiche, come li ho adesso. L’ottica del patron della Ecm Manfred Eicher, allora assai elitaria, mi diventò stretta quasi all’improvviso».
Vuole ammettere con ciò che esiste un Metheny «morbido» - quello del Pat Metheny Group, per intenderci - e uno più arduo che esige un ascolto concentrato e ripetuto, come in Zero Tolerance for Silence pubblicato da Mca nel 1994?
«Assolutamente no. Si tratta di due espressioni diverse, ma a ben guardare neppur tanto lontane fra loro, del mio modo di fare musica. Prova ne sia che mi apprezzano le stesse persone, specialmente in Europa».


Nel 1991, durante un corso di chitarra tenuto a Ravenna, lei fece sorridere tutti esclamando testualmente: “Sapete, io non so suonare tanto bene la chitarra...”. Che cosa voleva dire?
«Ho da sempre una lieve anomalia tecnica nella mano destra. Ma forse è stata la mia fortuna».

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