Notte di papaveri e papere. Milionari e strafalcioni. Il papero riccastro resta nascosto nell'aria umida milanese. Parigi vale bene una messa ma Milano, anzi il Milan, è un'altra cosa, come il derby. Così doveva essere, stando alle chiacchiere di una settimana carica di storie, memorie, sondaggi, parole, parole, parole. La nebbia avvolge la città, Pato non ha la luce dei suoi giorni belli, l'amore gli scalda il cuore ma non i suoi muscoli di seta, gonfiati da una stupida cultura della palestra. La sera scivola via tra promesse e promesse, come è stata la commedia francese del brasilero, la cartolina della torre Eiffel nascosta in fretta sotto il cuscino e il poster della Madonnina stirato sul muro della stanza da letto, con una candela votiva accesa all'ultimo momento.
Non è successo nulla, forse tutto è accaduto e sta per accadere. Pato c'è ma non si vede, ogni suo respiro è fiato dorato nella nebbia meneghina, ogni suo scatto è una speranza magnifica seguita da una delusione amara, Pato dribbla, inciampa, tocca, spinge, sbuffa, sette è il numero della sua maglia ma non il voto in pagella, semmai i milioni che gli emiri di Francia gli avevano garantito per convincerlo al trasloco.
Il popolo rossonero ha fede eterna, dalla B alla Champions l'amore non è cambiato, semmai si è rinforzato, rinsaldato; se ne sono andati idoli di ogni razza e tipo, da Sheva a Kakà per dire tra gli ultimi, ma adesso, improvvisamente, imprevedibilmente, su Pato l'onda milanista non schiuma, non sale, quasi il suo addio sia segnato comunque, nonostante il volere e il sapere del presidente, con i suoi conti spicci da oste e da allenatore.
Di colpo l'icona è diventata figurina, da scambio con i compagni di giochi, l'idolo non incanta più, Pato divide, i tifosi non minacciano barricate in caso di cessione, l'urlo del Meazza, ieri sera, era riservato a tutti e a nessuno, compresi i fischi, i mormorii di chi è abituato alle brioche con la marmellata e non accetta il pane di grano duro. Quella storia con Barbara ha aggiunto malelingue e perplessità, secondo usi e costumi di un paese pettegolo con gli altri e mai con se stesso.
Il papero agisce ma non reagisce, si muove appena, macchinoso, impacciato, timido, non carica, trotta non galoppa, i minuti volano, il diavolo aspetta invano.
Arriva, invece, perfido, il segnale che sembra destino, entra nella cronaca di una notte moscia, finalmente una "P". Ma non la sua, di Pato, del Papero, ma quella del Principe, Diego Milito, lo sberleffo argentino al brasiliano.
Lo stadio rossonero ha freddo, i gradi pesanti del termometro non c'entrano, erano smaltiti da grappe e caffè fumante, piuttosto quel bambino non dà calore, è assente, diafano, non pervenuto. Il bambino? Era Rivera, chiedo scusa a Gianni anche se oggi fa il ballerino datato al sabato sera mentre uno dei suoi eredi pesta i piedi sul prato che fu il teatro grandioso dell'alessandrino.
Coincidenze, il calcio è anche questo, favola romantica e cronaca vera assieme, Pato deve averlo capito in questa settimana che poteva cambiare la sua vita e quella di due squadre. E che ha cambiato un derby senza cambiare questo ragazzo di ventidue anni, sostituito da un ragazzino di Savona con il cognome egiziano, un faraone per una sfinge fischiata.
Non basta un comunicato, non servono le parole di circostanza, le promesse di amore sono quelle dei marinai. Il Milan è altro, Milano anche. Parigi sta sotto il cuscino.
La commedia non è finita. Si replica, fino a giugno.
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