Patti Smith e Mapplethorpe: se il rock fa l’amore con l’arte

«S embrano due barboni ma in fondo sono solo ragazzi», è il commento di una signora alla vista di quella strana coppia seduta su una panchina di Central Park: lei con l’impermeabile nero anche d’estate, magrissima, dall’aria spiritata, lui riccioli ribelli, gilet di montone sul torso nudo, bello come un angelo.
È il 1967. Si sono conosciuti da poco eppure sembrano stare insieme da sempre. Patti, fuggita da Filadelfia dopo un drammatico parto che l’ha costretta a dare la creatura in affido, incontra Robert in giro per New York. Non hanno un dollaro e quindi decidono di dividere un piccolo appartamento. Sfogliano riviste e cataloghi d’arte, ascoltano dischi, mangiano quando possono, per un breve periodo sono amanti, certamente innamorati anche se lui da lì a breve prenderà altre strade e quando lei scoprirà l’omosessualità di lui ne resterà comunque scioccata.
Uscito in America a gennaio e appena tradotto da Feltrinelli, Just Kids racconta, tra il romanzo, il diario e la confessione, la straordinaria e commovente storia di due ragazzi, «fratelli di bohème», ma anche la storia di una New York davvero al centro del mondo, la sua energia e la sua poesia. A scriverlo è Patti Smith, che forse non sarebbe diventata la straordinaria artista a 360 gradi che conosciamo se non avesse condiviso un pezzo importante di vita con Mapplethorpe, per un ventennio il più grande fotografo americano. Sono esattamente coetanei, di novembre e dicembre 1946, condividono le stesse passioni che consentono loro di stare al riparo dal mondo, immersi nei libri e nel rock, animati da un sacro furore creativo e dalla voglia di sperimentarsi in qualsiasi campo.
Narrato con un taglio cinematografico in flashback, Patti Smith parte dagli ultimi istanti di vita di Robert ucciso dall’Aids e la certezza che non l’avrebbe rivisto mai più la spinge a ripercorrere la straordinaria giovinezza passata insieme: «Prima che morisse promisi al mio grande amico Robert Mapplethorpe che avrei scritto una storia che cominciasse quando noi avevamo ventenni. Era l’estate del 1967. La Summer of Love. Ho impiegato molto tempo a scriverlo. A volte mi ha fatto stare bene, ma spesso mi ha provocato un senso di perdita tale che ho dovuto metterlo da parte. Ora è finito. Ho mantenuto la mia promessa di raccontare la nostra storia. È una storia di successo e di destino. È un fiorire di vita e arte, le nostre battaglie giovanili e le nostre speranze e i nostri sogni».
Just Kids attraversa dunque il decennio del loro romanzo di formazione arrestandosi proprio alle soglie del successo, quando lui diventa l’artista di riferimento della sottocultura notturna newyorkese, e lei esordisce con un disco bello e sorprendente, Horses, in cui il punk si fonde con la poesia della Beat Generation, illustrato in copertina da uno stupendo bianconero dell’amico fotografo scattato in un appartamento sulla Quinta Avenue, completamente dipinto di bianco e non ammobiliato, spesso usato da Mapplethorpe come set fotografico. Dopo aver condiviso l’appartamento, ed essersi separati per un breve periodo, con i primi soldi guadagnati si trasferiscono al Chelsea Hotel, la famosa residenza dove scrittori, attori, musicisti, attori, artisti del calibro di Stanley Kubrick, William Burroughs, Jack Kerouac, Bob Dylan, Janis Joplin, Leonard Cohen, Sid Vicious e molti altri avevano vissuto e vivevano. Da lì prendono avvio i primi passi di due straordinarie carriere. Nel 1970 Mapplethorpe smette di disegnare e compra una polaroid. Nel 1973 la prima personale alla Light Gallery di New York rivela un artista scandaloso ed esplicito che negli scatti utilizza particolari di corpi di amici gay e della stessa Patti Smith. Da lì a poco, nel 1975, lei debutta nel mondo discografico.
L’ultima parte del libro, la più drammatica e intensa, spiega che solo apparentemente la morte mette la parola fine a una storia. È il 9 marzo 1989 quando Robert muore. Lei si mette in macchina con il marito, verso sud, cercando un motel sul mare, «dove Dio è dappertutto, riuscii a calmarmi. Rimasi a guardare il cielo. Le nuvole avevano il colore di un Raffaello. Una rosa ferita. Ebbi l’impressione che l’avesse dipinto lui stesso... In quell’attimo d’infinito mi fermai. D’improvviso lo vidi, i suoi occhi verdi, le sue ciocche nere. Sentii la sua voce al di sopra dei gabbiani, delle risate infantili e del ruggito delle onde. Sorridi per me, Patti, come io sorrido per te».
Proprio queste immagini finali ripercorrono un altro omaggio della Smith a Mapplethorpe, The Coral Sea, disco difficile e sorprendente suonato insieme a Kevin Shields, geniale chitarrista dei My Bloody Valentine. Anche nella retrospettiva alla Fondazione Cartier di Parigi dello stesso anno, atto di consacrazione definitiva di Patti Smith nel mondo dell’arte visiva, il fantasma di Mapplethorpe appare e scompare tra gli oggetti appartenutigli, tra cui una sedia, la scrivania, le pantofole nere con le iniziali in oro brunito, tutte battute in asta per sostenere la sua Fondazione.

A lei rimane «una ciocca dei suoi capelli, un pugnetto delle sue ceneri, una scatola di lettere, un tamburello di pelle. E nelle pieghe di una velina viola sbiadita, una collana, due placche incise in arabo, legate con fili neri e d’argento, regalatemi da un ragazzo che amava Michelangelo».

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