Parigi - Tanto che si scende, scende anche la luce. Cala la luce, vertiginosamente cala sulla rampa di gradini che dall’ingresso della Fondation Cartier di Boulevard Raspail porta ai due saloni bui dove fino al 22 giugno sarà in mostra l’altra Patti Smith, quella che non s’era mai vista: la fotografa, la disegnatrice, la poetessa e, soprattutto, la collezionista di reliquie, di piccoli oggetti, di tempi volati via. La collezionista di aquiloni dell’anima. Qui alla Fondazione Cartier la realtà rimane fuori, rimane nella Parigi dove pioviggina come al solito, mollemente. Dentro alla Fondazione invece è tutto immobile, anche il tempo. C’è solo lei a muoversi a perdifiato, Patti Smith, questa cantante che ognuno adotta per come preferisce: la rockstar di Because the night, l’incerta attivista politica, la sopravvissuta del punk, la filologa del Village, soprattutto l’artista che non riesce a limitarsi solo alla musica.
Lei esonda.
E quindi crea anche in tante altre maniere. Le foto. I disegni. Gli appunti, eccoli qui. «Adesso voglio iniziare a dialogare con i miei fans facendo vedere un lato nuovo di Patti Smith». Sono tutte in mostra, le sue opere, nei sotterranei di un palazzo che sembra un’urna di cristallo, progettato da Jean Nouvel con eleganza essenziale e lussuosa. E il conflitto tra lo stile Cartier (elegante, ovvio) e lo stile Smith (trasandato) è feroce, stridente, perciò artistico. La sacerdotessa stropicciata nel tempio del lusso: sarebbe piaciuto moltissimo a Basquiat, che ci godeva con queste cose e poi ne soffriva. Comunque, benvenuti, allora, questa mostra si chiama Land 250, come la vecchia Polaroid con cui lei ha scattato quasi tutte le foto esposte. Però lo sa che la Polaroid sta per chiudere per sempre, signora Smith? «Eh lo so, mi rimangono 20 rotoli di carta fotografica, poi basta: starò attenta».
Starà attenta.
Certo, lei, in camicia bianca e gilet nero, sgarruppata come il solito, presa dall’ossessione di chi vuole togliere l’impiccio del corpo alla mente, dice subito che «io non sono una fotografa ma una che scatta foto», mettendo pudicamente le mani avanti perché questa è nientemeno che una mostra personale a Parigi, signori, mica una mostra qualsiasi in un posto qualsiasi.
Montparnasse, accidenti.
D’altronde, neppure per lei è un posto qualsiasi. A ventitré anni, nel 1969, ha vissuto proprio qui dietro, in rue Campagne, alla stanza 30C, quando lei era solo l’amica newyorchese di Robert Mapplethorpe, che poi sarebbe diventato uno dei fotografi più forti del Novecento. E forse, qui in questa mostra fortemente voluta dalla Fondazione Cartier, è meglio cominciare proprio dall’esposizione delle sue pantofole di malato morente di Aids. «A Robert – sussurra l’amica – piacevano molto le scarpe ma alla fine della sua vita poteva indossare solo le pantofole». Queste sono belle, morbide, malinconiche, con le iniziali sopra. RM.
Sembrano molto simili a quelle là di fianco, alle scarpe di Benedetto XV, che Patti Smith comprò chissà quando per un solo motivo: quel Papa aveva proclamato beata Giovanna D’Arco, autentica dea della Patti Smith giovane, pugnace, pronta a farsi bruciare viva in nome dell’idea quale che fosse. Adesso, a sessant’anni e rotti, il fuoco brucia meno. E Patti Smith è una madre che ha perso il marito Fred nel 1994 e si è trovata ad allevare due ragazzini (uno, Jackson, adesso le suona la chitarra e qui la accompagna nell’unica canzone che lei ha cantato, Grateful).
Anche il punk tiene famiglia. E lei è una cantante quasi punk che ha dovuto fare i conti con i temi conservatori: la memoria del marito, la famiglia, i conti da pagare quando i soldi – a metà anni Novanta – erano pochini e il successo ancora meno. Perciò è quasi sottovoce, lei così stentorea, che adesso usa il «maanchismo» per spiegare la sua posizione sulle Olimpiadi. Una volta avrebbe strillato: boicottiamole! Invece adesso dice che è «il diritto di boicottare esiste ma è anche vero che gli atleti si preparano a lungo per queste gare».
Ah, quant’è bello cambiare idea, crescere.
E questa evoluzione c’è anche nelle foto che lei stessa ha scattato, come avrebbe potuto scattare ciascuno di noi senza arte né parte ma con tanta sensibilità: foto brutte, talvolta inutili eppure incastrate in un percorso. Il Pantheon di Roma fotografato nel giorno della morte di Giovanni Paolo II. La macchina da scrivere di Herman Hesse. La Torre Eiffel. Flea dei Red Hot Chili Peppers (con cui sta preparando un disco molto aggressivo). Busti di marmo. La facciata del Chelsea Hotel. Il letto di Victor Hugo e quello di Virginia Woolf (oltre a un sasso del fiume dove si è suicidata). Poi un autoritratto sofferente. Il cristo di Rio De Janeiro. Foto di tombe. Ecco, le foto di tombe sono l’idea del tempo immobile che piace a Patti Smith: si sa quando sono state costruite, le tombe, ma non quanto durano e quando sono state fotografate. Sono lì. C’è quella di Wittgenstein, c’è quella di Jim Morrison dei Doors, che lei ama perché lui amava Arthur Rimbaud, che è il suo vate e che qui è catalogato con passione, esponendo una lettera autografa, una sua valigia e le posate, un ritratto fantastico che Patti Smith fece nel ’73 e addirittura un biglietto da visita del poeta: «Milano, piazza del Duomo 39, terzo piano». Rimbaud, il Rimbaud maledetto e bellissimo, visse a Milano per un breve tempo e forse anche per questo l’Italia piace tanto a Patti (che nei giorni scorsi è stata celebrata anche a Bologna con concerto suo e la proiezione del film su di lei: Patti Smith, the dream of life).
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