Silvia Kramar
da New York
Sono passati molti anni dallo scandalo del falso diario di Adolf Hitler. Da allora si erano perse le speranze di poter far luce sui segreti che il genio del male del Terzo Reich si era portato nel bunker del suicidio, ma invece la sua storia tornerà probabilmente nelle librerie, con una prospettiva inedita, nuova e agghiacciante.
Sono i figli di suo nipote Willy Hitler, in una casetta di Patchogue, a Long Island, a scrivere un memoriale di una famiglia il cui cognome è sinonimo del peggior capitolo della storia del Ventesimo Secolo. «Stiamo scrivendo la nostra biografia, abbiamo un agente e un buon avvocato», hanno fatto sapere a un reporter del New York Times che aveva bussato alla loro porta, cacciandolo via.
Patchogue è la tipica cittadina di provincia americana, coi suoi ristorantini lungo la Main Street, gli autobus gialli delle scuole pubbliche, il cinema con l'aroma del popcorn e i giardinetti ben tenuti. È a poco più di un'ora da Manhattan, nell'hinterland di quella classe media newyorchese che preferisce vivere a Long Island e svegliarsi presto pur di dormire lontani dal caos dei grattacieli e delle avenue. La vita qui scorre un po' lenta, un po' più a misura d'uomo rispetto alla frenesia della Grande Mela. Ed è qui, in queste villette monofamiliari, in questo mondo un po’ volutamente anonimo che vivono gli ultimi Hitler. Da anni hanno cambiato cognome ma i vicini li conoscono bene: sono due fratelli, Louis e Brian, che vivono da scapoli in una casetta che sembra proprio fatta per le bambole tirolesi dividendo una cucina e un bagno, trascorrendo le giornate a fare i giardinieri. A pochi isolati vive il terzo fratello, anche lui solo: Alexander fa l'assistente sociale. Spesso vanno tutti insieme a visitare la tomba di famiglia, nel piccolo cimitero di Patchogue, dove riposa il loro quarto fratello, Howard, morto in un incidente d'auto nel 1989 e sepolto accanto ai genitori: il padre Willy e la madre Phyllis, una tranquilla casalinga che aveva insegnato loro il tedesco, le melodie teutoniche e la storia segreta di famiglia. Quella cioè di una dinastia che i fratelli stanno trascrivendo per realizzare un libro rivelazione che farà il giro del mondo. La loro storia era già stata narrata nel 2001 in un libro intitolato The last of the Hitlers, ma loro si erano astenuti dal collaborare con l'autore, tenendosi per sé i segreti che questa autobiografia promette invece di rivelare.
Ad esempio si dice che i quattro abbiano fatto un patto segreto: avrebbero deciso ognuno di non avere figli per non tramandare forse un Dna, forse una maledizione o forse soltanto l'incubo di portarsi addosso un nome così doloroso da aver convinto il loro padre, dopo l'arrivo negli Stati Uniti nel 1939, a prendersene uno perfettamente inglese: Stuart-Houston. Quel nome c'è ancora, sull'elenco telefonico di Patchogue, nella categoria «Giardinaggio»; ma i due fratelli Brian e Louis, abituati alla curiosità di fotografi, giornalisti e di quei vecchi ebrei sopravvissuti alla Shoa che ancora vengono alla spicciolata - a cercare vendetta o forse una chiusura psicologica al lungo cammino di vittime - ormai non aprono più la porta. Dichiarano solo che stanno scrivendo un libro che promette rivelazioni inedite sui segreti degli Hitler.
William Patrick Hitler, il loro padre, era figlio di Alois Hitler, fratellastro del Führer. Aveva lasciato la Germania per trasferirsi a Dublino dove, durante un concorso ippico, aveva conosciuto quella che sarebbe diventata sua moglie: Bridget Dowling, un'irlandese con la quale si sarebbe trasferito a Liverpool.
William Patrick vi è nato nel 1911, soprannominato dai vicini di casa Paddy Hitler. Vivevano al 102 della Upper Stanhope Street, nel quartiere di Toxteth: una casa che ironicamente sarebbe stata distrutta durante l'ultimo attacco aereo della Luftwaffe su Liverpool nel 1942 e che ancor oggi è un mucchio di rovine.
Ma Alois non era nato per fare il padre di famiglia: dopo pochi anni aveva abbandonato moglie e figlio ed era tornato a vivere da scapolo in Germania; si era rifatto vivo solo negli anni Venti, quando la nascita della Repubblica di Weimer l'aveva spinto a chiedere al figlio di andare a far carriera in Germania. Nel 1933, a 23 anni, William si era trasferito dal padre e aveva conosciuto Adolf Hitler; sperava che lo zio l'aiutasse.
Il Führer l'aveva immediatamente preso in antipatia: Willy, come lo chiamava suo padre, era definito da Adolf Hitler «il mio odioso nipote» e solo in seguito alle pressioni di Alois l'uomo più potente della nuova Germania gli aveva aperto alcune porte. Gli aveva trovato lavoro in una banca, poi alla Opel e infine, stanco, aveva cercato di disfarsene. Ma nella Germania nazista che adorava il Führer, il giovane Willy aveva cominciato a ricattare lo zio: si diceva che potesse provare che Hitler aveva sangue ebraico, che lo zio l'avesse messo a tacere con favori e minacce.
Un segreto che adesso gli ultimi discendenti dello zar del Terzo Reich forse stanno per consegnare alle pagine del loro manoscritto, velato ancora dal massimo segreto. Non si sa chi lo pubblicherà e quando, ma l'interesse per le confessioni degli Hitler è enorme.
I vicini di casa ricordano ancora questi quattro bambini, che in casa parlavano solo tedesco e giocavano coi soldatini sfidando le «armate americane» degli altri ragazzini. Uno dei fratelli possedeva una barchetta cui un giorno aveva dato fuoco nel giardino di casa urlando: «La Bismarck sta affondando!». Louis aveva un taglio di capelli identico a quello dei Beatles, Howard suonava la batteria con la band del liceo. Alexander era sempre serio e andava con la madre a bere dalla soda fountain della farmacia Phannemiller, di proprietà di altri immigrati tedeschi.
Molti ancora ricordano quel padre, che era identico al Führer: stessi occhi, stessi baffetti, stesso mento squadrato. Willy aveva aperto un laboratorio per le analisi del sangue; non amava parlare di sé ma tutti sapevano che nel 1942, probabilmente minacciato dallo zio, era scappato a Londra e aveva cominciato a prendere le distanze scrivendo un articolo per la rivista Look intitolato Perché odio mio zio.
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