Roma - «Se dobbiamo andare avanti così, in questa situazione di sfascio, e arrivare al voto con questa legge elettorale, io preferisco farmi da parte: guidasse Prodi il Pd e quel che resta del centrosinistra al voto». In uno dei tanti summit di maggiorenti del Pd, che si sono susseguiti durante la giornata di ieri, Walter Veltroni si è sfogato così, minacciando di gettare la spugna.
Il timore, che confidava ad alcuni compagni di partito anche la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, è che Prodi voglia arrivare al voto del Senato oggi pur sapendo di rischiare la bocciatura ma convinto che così sarebbe lui a «restare in campo e guidare il Pd alle elezioni», con quel che resta del centrosinistra. Anche se «non è detto che non abbia i numeri, alla fine», diceva Goffredo Bettini. E la prospettiva di un nuovo governicchio Prodi da sostenere nei prossimi mesi tra i marosi parlamentari non alletta molto il Pd. Anzi per nulla.
«Walter non può mollare, sarebbe la morte definitiva per il Pd», commentava preoccupato il parlamentare torinese Marcenaro, ex ds. Ma certo la giornata di ieri, come diceva Enrico Letta, ha «allargato ancora di più il fossato» tra il premier e il Pd veltroniano. Tale era l’incomunicabilità che fino a tarda sera, i big del principale partito della coalizione ancora non sapevano cosa avrebbe deciso Prodi: se arrivare fino in fondo al percorso che ha delineato, facendosi votare oggi la fiducia in Senato, o rimettere prima il suo mandato al capo dello Stato. Durante la riunione con i suoi ministri, convocata a Montecitorio dopo la fiducia, il premier era rimasto «abbottonatissimo», secondo uno dei partecipanti. Ascoltando i consigli, assai diversi tra loro, dei vari presenti: Parisi, la Bindi e Padoa-Schioppa che lo spronavano ad «andare fino in fondo», perché il problema «non è se avrai la maggioranza ma la limpidezza del percorso che hai scelto». Più prudenti Chiti, Fioroni, Amato, che gli dicevano di andare «solo se hai la sicurezza dei numeri».
Altrimenti, «meglio seguire il consiglio del presidente della Repubblica, e rimettere il mandato». D’Alema e Rutelli, invece, sono fermi sulla linea del Colle: se rimetti il mandato ora, non ti precludi un eventuale reincarico dopo le esplorazioni del Colle. Una linea dietro la quale, teme Veltroni, si nasconde il disegno di un governo tecnico di alto livello (Draghi o Monti) destinato a durare per tutta la legislatura, che faccia una riforma elettorale tedesca. E che chiuderebbe al sindaco di Roma la prospettiva di essere il leader destinato a portare il Pd alle prossime elezioni. Solo a sera, riunito nel loft con Franceschini e i capigruppo Finocchiaro e Soro, e con Bersani e Fassino, Veltroni ha alla fine appreso che il premier non molla: «Ci dicono che va e si fa votare, e che è molto determinato. Evidentemente pensa di avere chance», spiegavano dal quartier generale di Santa Anastasia. «E noi non possiamo che essere del tutto solidali: praticamente siamo prigionieri di Prodi». Per tutta la giornata il pressing per dissuadere il premier dalla conta di Palazzo Madama era stato frenetico. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quella nota trapelata dal Campidoglio, secondo la quale il Pd era favorevole alle dimissioni di Prodi prima del voto del Senato perché «un risultato negativo precluderebbe la strada a qualsiasi altra ipotesi». «E perché dovrei preoccuparmi del dopo Prodi? Forse che qualcuno si è preoccupato di me?», è sbottato il premier. «Non posso credere a quel che leggo: mi aspetto una smentita», si è indignato Parisi. E Franceschini ha dovuto liquidare come una «bufala» il comunicato, assicurando che «sosteniamo convintamente le scelte del premier».
Perché come spiegava Veltroni a sera, «non possiamo che stare stretti su Prodi, a questo punto».
Nella consapevolezza che se Prodi viene bocciato al Senato, «dopo non ci sono che le elezioni ad aprile con questa legge o un governo di transizione istituzionale fino a giugno che tenti di rifare la legge elettorale».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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