Il Pd litiga fra lotta e governo L’Idv lo sbertuccia: siete fuffa

Fassina torna a sparare sulla manovra: "Brutale". Ma i "Monti boys" aprono persino alla riforma dell’articolo 18. E Di Pietro insiste sul no alla fiducia

Il Pd litiga fra lotta e governo  L’Idv lo sbertuccia: siete fuffa

Roma Una manovra «recessiva» e «brutale». Una manovra che «non ha ragioni economiche», ma solo «squisitamente politiche», per avere titolo a sedersi al tavolo europeo.
Ci ha preso gusto, Stefano Fassina, e ieri è tornato a bacchettare il governo Monti in una intervista al Manifesto. Certo, dice il responsabile economico del Pd, il partito di Bersani darà il proprio sì alla fiducia sulla manovra, ma è solo un «sì politico», come il 6 politico un tempo reclamato dagli studenti asini.

E un po’ asino questo governo di professori lo è, a suo parere, visto l’elenco di punti da correggere nei suoi provvedimenti economici.

A sera, un po’ di correzioni richieste dal Pd sono arrivate, dall’aumento del prelievo sui capitali scudati all’innalzamento della soglia per l’indicizzazione delle pensioni, dall’addolcimento dello «scalone». I dissensi che qualche parlamentare aveva già apertamente annunciato (Esposito e Boccuzzi erano pronti a votare contro) ora rientreranno. E Pier Luigi Bersani, che ieri - mentre in Parlamento si trattava sul maxi emendamento - incontrava i sindacati e ammoniva il governo del Professore: «Deve ascoltare le richieste del Parlamento e delle forze politiche e sociali», può lasciar trapelare la propria soddisfazione per i risultati ottenuti.

«Sta iniziando una significativa correzione della manovra», dice il capogruppo Dario Franceschini. Anche se molto, ammoniscono dal Nazareno, va ancora fatto, e quello che non potrà «essere risolto in questo giro, cercheremo di risolverlo al prossimo». Il Pd continuerà a insistere sulla lotta all’evasione fiscale, sulla deroga selettiva al patto di stabilità, sulle liberalizzazioni. «Su quello che non sarà fatto, noi continueremo a insistere nei prossimi mesi. Il mondo non finisce qui», dicono i bersaniani.

Gli alleati quasi ex tali di Italia dei Valori ironizzano però sui successi che il Pd si attribuisce: «È ovvio - dice Leoluca Orlando - devono trovare un pretesto per giustificare il loro sì e farlo digerire alla propria base. Ma le correzioni del maxi emendamento sono poco più che fuffa». Antonio Di Pietro si prepara (salvo contrordini dell’ultimo istante, mai da escludere con l’ex pm) a votare no alla fiducia «se diventa un ricatto per approvare una manovra iniqua». Se lo facesse, la rottura con il Pd sarebbe difficile da ricomporre. Da un lato il leader Idv punta a capitalizzare nuovi consensi togliendoli al Pd che nelle piazze fa il partito di lotta, ma in Parlamento è poi costretto ad essere partito di governo, pagandone i prezzi. Dall’altro però teme le minacce di Bersani, che lo accusa di «deformare e denigrare» le proposte del Pd e di voler provocare una «rottura non ricomponibile». Il che vorrebbe dire, per Idv, andare da sola alle prossime elezioni ed essere tagliata fuori da possibili alleanze di governo: un prezzo troppo salato da pagare per il suo partito.

Più che il rapporto con Di Pietro, al momento, a preoccupare Bersani è il mantenimento della compattezza del proprio partito. Nel quale si scontrano sordamente due anime con strategie e orizzonti molto diversi, due anime tra cui è stata proprio la nascita del governo tecnico a segnare la linea di frattura. I «Monti boys» da una parte, che sognano la nascita di uno schieramento riformista, modernizzatore e più decisamente spostato al centro, e gli anti-montiani dall’altra. Di cui Fassina è uno dei capifila, destinato presto ad aumentare di peso nel partito grazie all’ingresso in Senato: l’ex pupillo di Vincenzo Visco è infatti il primo dei non eletti in Liguria, e Roberta Pinotti, si dice anche su pressione diretta del segretario, dovrebbe di qui a pochi mesi lasciargli il posto per candidarsi a sindaco di Genova con la benedizione del partito.

Bersani sa bene che, archiviato il decreto «Salva-Italia», si aprirà una partita ancora più complessa e lacerante per il Pd, quella della riforma del lavoro.

Fassina (e con lui Damiano, Cofferati, l’ala filo-cigiellina e anche una parte degli ex Ppi) è già sul piede di guerra: «Ricordo che alla conferenza del lavoro di Genova 500 delegati Pd hanno detto e votato che per la crescita non servono facilitazioni sui licenziamenti». Un avvertimento tutto interno, ai Monti boys che si preparano a sostenere la riforma dell’articolo 18 del Professore.

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