Il Pd spegne Facebook Poi ci ripensa. E sbaglia

Una buona idea subito rimangiata. È capitata alla segreteria romana del Pd: questa è la notizia. Che impiegati perdono troppo tempo a guardare Facebook, invece di lavorare e inseriscono notizie sul magico libro informatico, ricevono e rispondono ai messaggi. Insomma, invece di dedicarsi all’amministrazione della politica vengono trascinati nel frastornante turbinio della rete. La direzione del Pd pensa di correre ai ripari: un filtro nei computer degli impiegati che oscuri Facebook.
Non passano ventiquattro ore che i dirigenti Pd devono correre ai ripari: via il filtro, tutto come prima. Le proteste dei dipendenti erano state così alte (anche per i concetti ideologici evocati, come «sfruttamento», «alienazione», «plusvalore», insomma tutto l’armamentario di un vecchio pensiero marxista) che continuare sulla strada della proibizione all’accesso del magico libro sembrava una contraddizione politico-culturale non ammissibile. La direzione Pd aveva in un secondo tempo giustificato la sua decisione di oscuramento con una motivazione molto corretta: anzi, poteva diventare un ottimo esempio per tutti. Veniva sottolineato che la chiusura di Facebook era stata pensata perché il luogo di lavoro deve essere considerato soprattutto un centro di socializzazione. Internet - non è una scoperta - tende a isolare, chiudere in se stesse le persone che finiscono per ignorare i presenti, ammaliate dallo schermo del computer.
Nella segreteria del Pd si continuerà a guardare Facebook e a non socializzare, cosa che, in realtà, è molto comune nelle nostre case e negli uffici pubblici. D’altra parte, non è poi una situazione tanto nuova: una volta gli impiegati giocavano a battaglia navale o mettevano in pratica mille altri espedienti per far trascorrere le ore d’ufficio (Fantozzi in questo è la bibbia).
Sono due i mondi che andrebbero protetti dall’alienazione (questa sì: vera e propria) provocata da un uso sbagliato di internet. Penso al mondo del lavoro e a quello della scuola, alla variegata realtà degli impiegati e a quella dei giovani. Socializzare in una relazione concreta, fatta di scambi di opinione, di comunicazione di sentimenti è un’esperienza che la virtualità non sarà mai in grado di sostituire. L’esperienza è il frutto di un processo esistenziale che mette alla prova, che è rischioso, che non garantisce il successo.
Un giovane che passa il suo tempo a contattare persone via internet, non avrà mai di esse una vera esperienza: se la comunicazione instaurata non lo aggrada, spegne il contatto e tutto finisce lì: non c’è il rischio di un’avventura sconosciuta, non c’è la possibilità dello scacco (il rifiuto, per esempio, di una relazione d’amore). Questo è uno dei motivi della fragilità dei nostri giovani che non riescono a tollerare una sconfitta affettiva (reale), un’impasse che li metta di fronte al fallimento di un percorso.
Il mondo virtuale crea sentimenti ed esperienze virtuali, che sono molto facili da gestire perché basta un clic per annullare tutto. L’esperienza concreta mette di fronte alla realtà concreta, con i suoi pericoli, coi suoi rischi imprevisti: ma è formativa, educa, costruisce personalità. Chi pensa di poterla sostituire, crede che la virtualità sia il nostro campo di esistenza: una vera follia!
È chiaro che nel mondo del lavoro e in quello della scuola si sviluppano le relazioni umane e le forme della conoscenza decisive per la costruzione della nostra identità, della nostra coscienza.

Se in questi due mondi tanto delicati non si ha la giusta attenzione - per inerzia, per ossequio al politically correct, per semplice stupidità - d’imporre un corretto uso di internet (da intendersi come puro e semplice strumento di lavoro e recipiente di notizie a cui attingere per il lavoro o per la scuola) la virtualità finirà per annientare l’esperienza e soffocare i sentimenti.

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