Il lavoro è un tema bistrattato nella letteratura recente. Siamo sempre allo stesso punto: il precariato cucinato in modo possa essere scodellato nei talk show de sinistra o adattato in commedia, però impegnata. Ricordo un romanzo che mi passò tra le mani alcuni anni fa. La trama, all’incirca, era questa: due sedicenti creativi vogliono entrare nel mondo dorato della pubblicità. Scoprono che la strada per il posto fisso è impervia. Devono accontentarsi di un impiego part time a mille euro al mese, trascorso tra festini con modelle e trasferte a Barcellona. Una tragedia? Dipende dai punti di vista. Nello stesso periodo avevo una supplenza annuale alle superiori, ero precario dunque, guadagnavo novecento euro e rotti al mese, frequentavo (con tutto il rispetto) bidelle e non modelle, e la gita di classe, poi saltata causa mancanza fondi, volevamo farla a Mantova, meta infinitamente più interessante di Barcellona ma senz’altro poco esotica per un cremonese.
Antonio Pennacchi, in questo universo asfittico di precari della letteratura, entra con l’irruenza del suo Mammut (Mondadori, pagg. 188, euro 17). Tecnicamente, il suo primo romanzo, scritto nel 1986-1987, edito da Donzelli nel 1994 e ora ristampato con una prefazione nuova di zecca. Si sentiva il bisogno di questa ristampa? Sì, perché non è un tentativo di capitalizzare il successo del recente Canale Mussolini, premiato allo Strega 2010. Le vicende sindacali di cui è protagonista Benassa, alter ego dell’autore, per un decennio leader del consiglio di fabbrica della Supercavi di Borgo Piave (Latina), sono ancora di estrema attualità. Il pensiero, mentre si legge, corre subito alla Fiat, a Marchionne, a Mirafiori e alla relativa spaccatura fra chi ha e non ha firmato l’accordo. Cisl e Uil da una parte, Cgil dall’altra (Problema affrontato nella prefazione, in cui Pennacchi consiglia a Marchionne di non voler stravincere, per evitare la deriva estremistica della Cgil, poco conveniente per tutti, ma anche per dare all’operaio ciò che gli spetta, cioè la possibilità di discutere e incidere sul futuro della fabbrica, che è buona parte della sua vita).
Le posizioni di Benassa sono di (ultra)sinistra: è un marxista leninista, specie già in via d’estinzione all’inizio degli anni Ottanta, che crede nella lotta di classe e nella rivoluzione. L’idea è semplice: nessun compromesso con l’azienda. Eppure l’(ultra)sinistra di Benassa ha alcuni pregi indiscutibili, che dovrebbero interessare anche chi a Mao Tse Tung preferisce Ronald Reagan.
Primo. Quando la crisi, dopo un glorioso periodo di crescita, sembra travolgere la Supercavi, Benassa è costretto a fare «i conti con le compatibilità aziendali e l’economia di mercato stessa». Alternativa: la chiusura. Ed ecco il consiglio di fabbrica prendere in mano la situazione, e accettare duri sacrifici (anche il lavoro senza salario) per tenere aperto. Risultati: crisi superata attraverso ristrutturazione, maggiore competitività, investimenti in tecnologia, fusioni con aziende più grandi. Nessun licenziamento forzato, piuttosto prepensionamenti e superliquidazioni. Una linea che fa sembrare antistorica l’intransigenza di alcune sigle sindacali di oggi.
Secondo. Qui il progresso fa sempre rima con crescita, produzione, trasformazione della società ma anche della natura. I miti della decrescita e dello sviluppo sostenibile, agli occhi degli operai, sono un balocco per borghesi dal portafogli già bello gonfio. La crescita economica porta sviluppo, miglioramento della qualità della vita e infine maggiori possibilità di emancipazione.
Terzo. Benassa, a un certo punto, diventa consapevole di appartenere a un’altra epoca. La classe operaia è estinta: «Culturalmente. Politicamente. Numericamente. Come i mammut». La rivoluzione è rinviata con ironia alle prossime generazioni, quelle che conquisteranno il cielo, colonizzando altri pianeti.
Là nella solitudine delle loro astronavi, gli uomini non potranno che scoprire solidarietà e socialismo.PS: nella fantascienza spesso i coloni più che il socialismo, scoprono il nazionalsocialismo. Non ditelo a Pennacchi, potrebbe cadere anche l’ultimissima illusione.
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