Pennacchi «Noi operai amavamo i nostri reparti»

Io ancora fino al 1978 – ma anche dopo, fino all’80, all’81 – pensavo di stare a lavorare per la rivoluzione, che la fabbrica fosse la nostra, non del padrone, e che prima o poi ci saremmo riusciti a costruire un mondo nuovo di giustizia e fraternità fra tutti, senza più lo sfruttamento capitalistico. Ero ancora un «antagonista» – come si suole dire – e il nostro era, appunto, un sindacalismo antagonista. Diventiamo «socialdemocratici» – e io pure togliattiano e riformista – nel 1981, quando la fabbrica entra in crisi e rischia di chiudere. È lì – quando la fabbrica l’abbiamo dovuta gestire noi, perché restasse aperta e restasse sul mercato – che ci mettiamo a fare i conti con le compatibilità aziendali e l’economia di mercato stessa. Che altro potevamo fare? La facevamo chiudere? Poi è andata come è andata. Sta tutto scritto nel romanzo. La fabbrica è rimasta aperta altri trent’anni. L’hanno chiusa adesso, nel 2010. E se il fatto d’averla tenuta tutti assieme aperta allora è uno dei più bei ricordi e soddisfazioni della mia vita, il fatto che l’abbiano chiusa adesso è uno dei dolori più grandi. Io – come ogni operaio – le volevo bene alla mia fabbrica, ai suoi reparti, alle macchine. E ogni tanto, di notte, mi sogno che mi richiamano a lavorare. A volte mi dà ansia, perché debbo superare un’altra volta il periodo di prova.

Ma il più delle volte è gioia pura, perché sto coi miei compagni, anche quelli che non ci sono più, e lavoro alle mie macchine, la Maillefer 120, i siluri, lo Shaw, la conica. Certe volte pure la Smalteria.

* tratto dall’introduzione
a
Mammut, romanzo edito
da Mondadori, per gentile concessione dell’autore

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