Il pensionato Fassino

Fino a qualche giorno fa in Transatlantico i giornalisti lo assediavano. Ora lo ignorano. Da leader, è diventato una semplice "risorsa"

Il pensionato Fassino
Roma - In queste ore gli hanno attribuito una battuta fantastica: «Ai giardinetti non posso andare, perché a piazza delle Coppelle, sotto casa mia, non ce n’è». Chissà se è vera. È certo, invece, che da domenica Piero Fassino vive in quel terribile stato di transizione (quasi debilitazione fisica) dei leader che improvvisamente si trovano senza ruolo e potere, in un Paese che al contrario di quelli anglosassoni non prevede possibilità di ricollocazione. In America e Inghilterra è normale che se finisci un mandato ti metti a fare discorsi a 500mila dollari di gettone, Fassino non avrà mai gettoni così cospicui, e già da ora fatica e trovare eroi disposti a sollazzarsi della sua avvincente oratoria.

Che poi è un destino curioso. Proprio lui che aveva come cavallo di battaglia l’invito ad abituarsi alla «flessibilità» per i più giovani, si ritrova flessibile e senza rete, dopo una vita di assunzione fissa e incarichi crescenti. Tutti i segnali che gli arrivano sono dolorosissimi. Pochi giorni fa Piero era a Montecitorio, nello stesso Transatlantico che solcava a grandi falcate per seminare il drappello di giornalisti che lo inseguivano ovunque: invece l’altro giorno Fassino sembrava stupito, quando passando davanti a un capannello di giornalisti parlamentari nessuno sentiva il bisogno di rivolgergli domande (nemmeno i cronisti di agenzia). Agli astanti è parso addirittura che Fassino rallentasse strategicamente il passo delle sue lunghe leve, come per dire «Sono qui!». Eppure, anche quando ormai era alla moviola, non uno gli ha detto: «Che pensa delle primarie...?». Tanto la risposta si conosce già. Fassino deve dire che è felice, felicissimo, così come gli altri - tutti - devono continuare a ripetere che «Piero è una grande risorsa» (e, ovviamente, nulla è più doloroso per lui).

Aggiungono che «Bisognerà farsi carico della generosità di Piero» come ha detto Francesco Rutelli, e come anche Dario Franceschini, il vice-Veltroni, ha aggiunto: «Bisogna pensare a un uomo come Piero, che ha dato un contributo importante e decisivo...». La verità è che in questo Paese, e in questa politica, quando ti dicono che sei «generoso» e che hai dato «contributi importanti», vuol dire che ti credono lesso. Nessuno lo sa meglio di Fassino, che fra l’altro, meno di quindici anni fa, dopo aver coordinato (e perso) la campagna di Achille Occhetto contro Massimo D’Alema per la leadership del Pds, passò mesi spiegare che Occhetto era «un leader generoso», e che «Achille ha dato un contributo importante».

Così, per non rodersi il fegato, domenica notte Fassino non era a piazza Santi Apostoli sul palco «dei vincitori», e ieri non era al tempio di Adriano di Roma, per la prima uscita pubblica di Veltroni. Meglio così, perché chissà quanto avrebbe (da «generoso») sofferto, per quella frase quasi spietata che il nuovo leader ha dedicato a lui e Rutelli: «Sicuramente faranno parte della vita del partito - argomentava Veltroni - che però metterà dentro molte altre forze...». Già, la parola d’ordine è «discontinuità». E poi, con una macchina da guerra come Veltroni, da fare resta ben poco, se è vero che persino Franceschini fatica. Allo spazio Etoile lui sussurrava una cosa a Veltroni, e quello ripeteva: «Il ticket mi dice che...». Ieri la scenetta più bella della conferenza stampa era il sindaco di Roma che se non era intrigato da una domanda girava la rogna a Franceschini: «Cedo la palla a Dario...». Arrivava il quesito di un collega verboso? E lui: «Dà-rio...». Fantastico.

D’altra parte Fassino sa dal giorno del voto che sarebbe finita così, e per farsi un paracadute aveva fatto fuoco e fiamme per entrare al governo. Allora, come è noto, fu stoppato dall’aut aut di D’Alema: «O fai il leader Ds o vai a Palazzo Chigi». Il mito della «generosità» fassiniana è nato proprio perché allora, a denti stretti, Piero scelse La Quercia.

Certo, l’uomo non è di quelli che riescono a starsene mani in mano, non pratica hobby avvincenti. Si porta dietro una certa aura di martirio: «Abbiamo scelto Walter non perché sia il più bravo - aveva detto - ma perché ha meno ferite di noi» E lui le stigmate se le sente tutte.

Fa fuoco e fiamme, da questa estate, per ottenere un grado da vicepremier, ma Veltroni (in questo caso, forse, meno «generoso»), corre in direzione opposta, chiedendo di «dimezzare i ministri». Piero vuole la superpoltrona di Padoa-Schioppa, che a ben vedere è l’unica priva di rete di sicurezza partitica. Ma a questo si oppone Prodi. E allora Fassino sogna un rimpastino che lo renda almeno vicepremier, anche con un ministero senza portafoglio. E glielo darebbero tutti volentieri, almeno per sollevarsi del problema umano, ma la maggioranza è così accroccata, che toccando un solo un tassello, si rischia di accelerare il crollo. Ecco perché Fassino diserta i baccanali delle primarie, e stamane andrà al Ghetto per l’anniversario della deportazione. Per far notizia è andato persino a visitare i gulag, lui che per dirne una più di Veltroni, arrivò a sostenere che si era iscritto al Pci «contro il comunismo». Oggi gli serve tanta tanta «generosità». O almeno una panchina a piazza delle Coppelle. luca.telese@ilgiornale.it
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