Roma - Il documento dei sindacati sulle pensioni è quasi pronto. E se Cgil, Cisl e Uil non lo hanno reso pubblico è perché sono ancora in attesa che il governo si presenti, se non con un piano dettagliato, almeno con una posizione unica e non - commenta una fonte sindacale - con idee diverse, al punto che ci sono ministri che vogliono l’età minima pensionabile a 55 anni mentre altri si vorrebbero spingere a 65.
Il problema dei sindacati continua ad essere la concorrenza della sinistra radicale che ha ingaggiato una guerra al rilancio, lasciando poco spazio di manovra alle organizzazioni dei lavoratori. Ciononostante, Cgil, Cisl e Uil potrebbero presentarsi al tavolo sulla previdenza portando in dote una piccola apertura. Nel documento ci sarà sicuramente il no alla riforma Maroni, il cui scalone (che porta l’età pensionabile da 57 a 60 anni nel 2008) non dovrà essere compensato con l’introduzione di disincentivi. Però ci sarà anche un riferimento alla necessità di un innalzamento graduale dell’età. Obiettivo che i sindacati hanno sempre detto di volere raggiungere esclusivamente attraverso incentivi e quindi tenendo fermo il principio della «volontarietà». Ma che potrebbe diventare un aumento vero e proprio, se l’unica alternativa fosse la revisione dei coefficienti che comporterebbe il taglio delle pensioni future.
Il governo per il momento non scopre le carte. Il ministro del Lavoro Cesare Damiano, vista la prossimità dei tavoli con le parti sociali, ha scelto di non parlare più di pensioni. Ma è noto che il «ritorno alla Dini» e la «manutenzione» delle riforme più volte evocati dal dicastero di via Flavia comportino un ritocco dei coefficienti da accompagnare ad un aumento graduale dell’età.
Su quest’ultimo fronte sono i partiti di sinistra della maggioranza a sbarrare la strada, come dimostrano le reazioni all’ennesima precisazione di Damiano sul fatto che il governo sta comunque cercando di abbassare l’età pensionabile, visto che la legge in vigore che si vuole superare è la Maroni e il suo scalone. Dentro Rifondazione comunista c’è chi dietro queste parole ha visto un raggiro. È il caso di Alberto Burgio: Damiano «fa come se lo scalone Maroni fosse già applicato e quindi presenta l’innalzamento a 58 anni come un abbassamento. Geniale».
Sull’altro fronte, la cena di domenica con le parti sociali e le ultime uscite di Damiano segnano al contrario la vittoria definitiva dei massimalisti sui riformisti. Il radicale Daniele Capezzone ha denunciato «una ritirata poco gloriosa sulle pensioni» ed Enrico Boselli, segretario dello Sdi, ha accusato il ministro di frenare: «Il governo invece della fase due ha innestato una bella retromarcia». Sulla stessa linea il ministro per le Politiche Ue Emma Bonino che si augura non sia iniziato «un “indietro tutta” sulle riforme».
Due protagonisti delle passate riforme previdenziali provano ancora a bilanciare il peso della sinistra. L’ex premier Lamberto Dini ha chiesto l’applicazione della legge che porta il suo nome che «prevedeva una revisione dopo 10 anni». E Tiziano Treu, presidente della commissione Lavoro del Senato ed ex ministro, ha ribadito la posizione della Margherita: «Immaginiamo un percorso graduale: se non c’è lo scalone, ci saranno degli scalini». E a chi, come i sindacati, non vuole che si faccia cassa con la previdenza, ha risposto il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo: nel Dpef, ha ricordato, «erano indicate come priorità sanità, previdenza, pubblica amministrazione e trasferimenti dello Stato. Dunque, le pensioni erano una delle quattro priorità in funzione della spesa pubblica».
Per il centrodestra il problema non è quello di far prevalere i riformisti della maggioranza visto che le soluzioni di compromesso sono ugualmente pericolose.
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