Perché non li lasciamo nascere? Abbiamo troppa paura di vivere

Diceva Charles Peguy: «O cuore,/tutto hai previsto,/ma non due labbra». È così, infatti, che ci si innamora. Si fanno tanti programmi esistenziali - e morali - a cui si crede di poter tenere fede, poi arrivano, improvvise, due labbra, e tutto deve reinventarsi. Un irresistibile, spontaneo irrompere della vita sembra condurci, errore dopo errore, gioia dopo gioia, sempre nella medesima direzione: verso il partner. È così, infatti, che ci si incontra davvero. Resistenze interiori altrettanto forti, però, vorrebbero trattenerci nello status quo precedente, in una fantastica autonomia da ogni relazione (ma ricordiamolo ancora, con Shelley: «Nothing in the world is single», tutto trascina tutto), in una «auto-responsabilità» glamour e liberaleggiante, in una sicurezza preventiva e profilattica.
Spesso, oggi, si assecondano proprio queste resistenze. Ed è così, infatti, che si abortisce.
Di tutto questo parla Claudio Risé in La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo, pagg. 160, euro 12), breve e profondo saggio che si inserisce in una lunga battaglia culturale e civile: quella contro l’aborto e, in ultima analisi, anche per una revisione della Legge 194. È una battaglia che negli ultimi due anni sembra non conoscere sosta, come fosse una specie di fiume carsico pronto a riemergere a ogni piè sospinto, a ogni caso di cronaca, a ogni sermone di prete. Nei dibattiti in parlamento, sui quotidiani, in televisione; una sorta di discrimine morale e anche elettorale: domanda fissa per tutti i candidati politici, ma anche maggior capitolo nel settore della bioetica. Come non ricordare qui la crociata, poco più di un anno fa, per la moratoria sull’aborto condotta da Giuliano Ferrara, che sfociò in un nulla di voti ma anche nella maggior discussione intellettuale dei tempi recenti? Lì a dimostrarlo i quattro volumi che raccolgono le centinaia e centinaia di lettere dei lettori del Foglio, per un totale di oltre milleseicento pagine. Come non ricordare, oltre all’idea di pubblicazione di un suo autoscatto testicolare, anche le roboanti o stranamente dimesse comparsate televisive di Ferrara durante la campagna per la sua lista «pro life»?
Memorabile quella con la Bignardi, in cui si evinse che essere a favore o contro l’aborto significava scegliere o non scegliere una certa scaletta per le Invasioni barbariche. E come non ricordare Eugenia Roccella, Livia Turco, Paola Binetti, (appena uscita per Mondadori con La vita è uguale per tutti) e altre parlamentari donne alle prese con l’eterno, probabilmente insolubile dilemma: libertà personale o difesa della vita? O il dibattito, attualissimo, sulla RU486, la pillola abortiva del giorno dopo?
Ma tutto questo è ancora, perdonateci, marketing. Claudio Risé, invece - psicanalista e docente di scienze sociali in varie università - ha ricondotto l’aborto là dove esso realmente prende consistenza d’ipotesi: nella psiche, nell’interiorità dell’essere umano, ovvero in quel vicolo illuminato a giorno in cui ci si trova a fare i conti con se stessi e dove nessuno, nonostante gli alibi e gli accomodamenti successivi, riesce a ingannarsi circa quello che è. Diventa così chiaro come sia necessaria, più di tutte le leggi o le manifestazioni pro o versus life, un’educazione spirituale e sentimentale che, allo stesso tempo, medichi le ferite e rafforzi l’élan vital di ciascuno, contro tutti i conformismi commerciali - anche in senso lato - di oggi, portatori più o meno apertamente di solitudine o di sfiducia nelle relazioni. «L’aborto, scrive infatti Risé, non nasce solo dalla malvagità o distrazione individuale, o dall’opportunismo di gruppi politici inconsapevoli o irresponsabili. Esso affonda le sue radici in un terreno psicologico, cognitivo ed affettivo molto più vasto, ed è alimentato dalla maggiore tentazione regressiva da sempre presente nella psiche umana: quella di uccidere il nuovo, lo sviluppo, il cambiamento, appena comincia a prendere forma. Prima che nasca, e ti costringa a cambiare con lui». Questa spinta naturale al cambiamento, aggiunge Risé facendo suo l’impeto anarchico della prima psicanalisi, è ostacolata dall’omologazione alle richieste sociali.
Contro il dinamismo e la ricchezza affettiva della nuova vita che ha la sua immagine nel figlio, nel bimbo che nasce, vince oggi «la difesa ossessiva dell’esistente e delle sue presunte certezze e protezioni. Essa viene coltivata in una fantasia di controllo ed arresto della vita, alimentata anche da affabulazioni tecnoscientifiche. Non è la prima volta che l’uomo nella sua storia costruisce idoli materiali, per sottrarsi al dono di sé». Viviamo all’interno di questa «preoccupazione essenzialmente statica, se contrapposta all’avventura drammatica e dinamica dell’incontro e della condivisione con l’altro».
Già, l’altro. Allo smarrito rapporto tra uomo e donna Risé dedica i capitoli più belli e tesi del suo libro, dove possiamo leggere dell’indebolimento dell’amore in una società nevrotico-ossessiva, secolarizzata e ipertecnologizzata; della progressiva affermazione di una sorta di indifferentismo sessuale e dell’enfatica invenzione politico-culturale di un genere che non esiste («Il “genere gay”, che si è cercato di costruire nell’epoca della crisi del dono reciproco tra i due sessi e dell’attacco alla riproduzione naturale come manifestazione della vitalità sociale, non esiste né dal punto di vista biologico, né da quello antropologico, né psicologico»); della conseguente perdita, sia maschile e femminile, del patrimonio affettivo, naturale e simbolico del proprio sesso; e della deriva del femminismo, riassunta nelle parole di Lia Cigarini citate così a proposito dall’autore: «C’è la rivendicazione dell’assoluto della maternità: ma la paternità esiste, anche se gli uomini non sanno più cos’è. Se la civiltà delle relazioni, che le donne hanno creato nei secoli, viene meno in cambio di un femminismo rivendicativo che rappresenta il conflitto solo sul piano dei diritti, si ha un ulteriore decadimento dalla civiltà».


Il merito di La crisi del dono, dunque, è quello di togliere l’aborto al dominio del diritto, della legge, della morale, della tecnica, della pseudo-libertà, e di ricondurlo là dove esso, paradossalmente, «nasce»: nella sterminata, pervasiva crisi odierna delle relazioni umane, seguita a un crollo psichico da cui l’Occidente, sebbene ne dettagli con cura le rovine, stenta ancora a imparare qualcosa.

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