Controstorie

Perché il voto a Budapest sarà una sfida solo a destra

Piaccia o non piaccia, gli ungheresi sono nazionalisti e identitari. Il motivo? Basta conoscere la loro storia

Marco Valle

da Budapest

Il Danubio scorre lento tra il castello di Buda e i palazzi di Pest. Nei millenni il grande fiume ha visto tante, troppe cose per sconvolgersi e preoccuparsi, figuriamoci se oggi si turba per delle semplici elezioni. Altrettanto sereno sembra Viktor Orbàn, il primo ministro della repubblica magiara che si prepara, il prossimo 8 aprile, a rivincere, forse persino a trionfare. Gran parte dell'Ungheria è con lui e lui lo sa.

Una conferma, l'ennesima, si è avuta nell'anniversario l'insurrezione del marzo 1848. Un evento lontano, 170 anni precisi, ma sempre vivo per gli ungheresi. Per ricordare la rivoluzione che fece traballare l'impero degli Asburgo ovunque immagini di eroi, di poeti, di ussari. E proprio giovedì 15 marzo, la data centrale delle celebrazioni, sotto una pioggia battente una folla enorme ha invaso la capitale per ascoltare il leader. Ritto sul palco eretto davanti al Parlamento, Orbàn ha ricordato il passato e annunciato il futuro, rivolgendo parole di fuoco contro gli oppositori interni e i loro sponsor stranieri.

«L'invasore di oggi è ben più peggiore e subdolo di quello ieri. Da un lato vi sono milioni di noi con un sentimento patriottico, mentre dall'altra c'è l'élite globale. Quelli che vogliono portarci via la nostra Nazione. Ma gli Stati che non fermeranno l'ondata migratoria saranno invasi e persi». E ancora: «C'è un progetto ordito da forze esterne, da poteri internazionali e dai loro complici. Queste elezioni non sono solo quattro anni di governo ma una scelta. Dobbiamo prepararci ad affrontare il candidato di Soros. Ungheresi, alzate le vostre bandiere, la Patria è in pericolo, è tempo di combattere». Come nel 1848, come nel 1956. Dalla folla applausi e inni. Orgoglio e fiducia. Una spettacolo forte che, non a caso, i media occidentali hanno preferito oscurare. Orbàn per i politici, giornalisti e burocrati europei è un guastafeste, un personaggio ingombrante, un autocrate populista e chi più ne ha più ne metta... Ma le cose, come sempre, sono più complesse e vanno comprese, analizzate.

Innanzitutto il personaggio non è piovuto dal cielo o sbucato dagli inferi. Con i suoi 54 anni Orbàn è l'ultimo esponente dell'opposizione antisovietica degli anni Ottanta ancora sulla scena. Il suo debutto (pirotecnico...) risale al 1989. Il 16 giugno di quell'anno infuocato, il morente regime tributò un solenne funerale a Imre Nagy e agli altri martiri della rivoluzione del 1956: per i comunisti un tentativo estremo di smarcarsi da un passato ormai ingombrante e proporsi come garanti di un cambiamento morbido.

Quella mattina 300mila persone si raccolsero in piazza degli Eroi, il sancta sanctorum della Nazione. La polizia era allertata. Nulla doveva turbare il clima di riconciliazione forzata e nessun riferimento al presente sarebbe stato permesso. Ma, in qualche modo, il giovane Viktor, capo di un gruppo studentesco, riuscì a intrufolarsi sul palco e a impadronirsi del microfono. In una manciata di minuti il ragazzo accusò il governo di aver «rubato il futuro» a intere generazioni e chiese libere elezioni e l'immediato ritiro dell'esercito sovietico. Scoppiò il pandemonio, la folla iniziò ad applaudire freneticamente mentre i furibondi gerarchi lasciavano disordinatamente la tribuna. Fu la fine della dittatura rossa e l'inizio di una carriera straordinaria.

Eletto in parlamento con i colori di Fidesz (Unione Civica Ungherese) nel 1990, Orbàn si ritrovò presto all'opposizione. Non lo convincevano i conservatori di Antall e detestava i socialisti, nostalgici del «comunismo al gulash». Quando nel 1994 i due partiti maggiori formarono una stramba coalizione, il giovane politico svoltò su posizioni conservatrici e trasformò Fidesz in un partito di massa. Una scelta azzeccata che gli permise di vincere le elezioni del 1998 ma che gli costò l'inestinguibile ostilità dei poteri forti transnazionali e l'odio implacabile dell'opaco miliardario «filantropo», americano ma d'origini ungheresi, George Soros. Da subito il primo governo Orbàn fu al centro di una violenta campagna mediatica con accuse di xenofobia, revanscismo, autoritarismo. Un delirio che, nonostante gli ottimi risultati ottenuti nelle successive elezioni (41,07% nel 2002 e 42,03 nel 2006), ricacciò Fidesz all'opposizione per due legislature. Iniziò così per Orbàm una traversata nel deserto conclusasi nel 2010 con il ritorno trionfale (52,73%) al governo della nazione e la riconferma del 2014.

Memore della precedente esperienza, Orbàn decise per una rottura netta e attuò da subito una linea nazional-patriottica attenta ai caratteri cristiani della società ungherese (famiglia, patria, solidarietà sociale) e ostile al relativismo neoliberale e ai parametri globalistici. In campo economico, dal 2010 il governo ha reagito all'invasività del Fondo monetario e della Banca internazionale, dell'Unione europea e delle multinazionali con misure miranti alla formazione di un capitalismo nazionale produttivo inserito in una società «basata sul lavoro», un modello contrapposto «all'assistenzialismo e alla speculazione finanziaria». Tesi difficilmente digeribili per le élite euro-occidentali che non a caso hanno sfruttato l'irrigidimento sulla questione dell'immigrazione illegale per scatenare un nuova campagna d'odio.

Ma ciò che più infastidisce i mandarini dell'europeismo senz'anima e i retori della globalizzazione è il patriottismo antitotalitario di Orbàm e Fidesz, un categoria per loro incomprensibile. Eppure basterebbe vedere, sentire, parlare. L'Ungheria è terra d'invasioni, un'isola etnica e culturale stretta tra entità ingorde, poco amiche o ostili: germanici, slavi, mondo ottomano. È la storia. Tragicamente ripettiiva e angosciante come ricorda la Casa del terrore, il museo di via Andrassy 60, il cuore di Pest. Il palazzo, già sede del partito filo nazista delle Croci Frecciate, fu per anni sede della polizia segreta comunista, la famigerata AVH. Un luogo di paura e morte. Nel labirinto sotterraneo i prigionieri venivano torturati, massacrati, uccisi in «nome del popolo». Ogni stanza racconta quella lunga deriva alle comitive di studenti e alle famiglie che visitano il luogo dell'orrore.

Un pellegrinaggio incessante e commovente che spiega meglio d'ogni analisi i sentimenti profondi e le scelte di un popolo.

Commenti