Perdonare non significa fare sconti

Bruno Fasani

Torno ancora sull’indulto, anche se più delle parole, ormai contano i fatti. Quelli accaduti e quelli in arrivo. Da cattolico dico che la cosa, così com’è stata gestita, non mi entusiasma, a prescindere dalle valutazioni sul perdono, che però in questo caso c’entrano ben poco. Più che uno strumento di reintegrazione sociale, così com’era lo scopo dell’indulto nelle sue origini, lo si è ridotto ad una questione logistica, quella delle carceri che «scoppiano».
Giovanni Paolo II l’aveva suggerito per l’anno del Giubileo e qualche politico ha pensato bene di fare proprio il suggerimento. Peccato che l’intenzione del Papa andasse nel segno di una considerazione collettiva sulla dignità di chi ha sbagliato e nella logica del perdono. Quello vero, ovviamente, che nulla ha da spartire con un calcio nel sedere, dato per far girare l’aria dentro le prigioni. Un uso intelligente dell’indulto esigerebbe una coralità di scelte, che non possono esaurirsi nel gesto demagogico di metter in strada chi già sulla strada ha conosciuto la sconfitta. Ricordarsi della dignità umana di chi sconta una pena dietro le sbarre, obbliga a chiedersi a quali condizioni è possibile un percorso di recupero vero della persona. Questo può venire solo da processi più snelli e veloci, dalla qualità delle carceri, ma anche dalla possibilità di erogare pene alternative, magari impiegando queste persone in lavori socialmente utili e retribuiti, quale condizione di riscatto da una vita sbagliata. All’ingresso di Auschwitz campeggia, in lingua tedesca, la famosa scritta: «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. È una verità sacrosanta, benché sia angosciante l’uso che ne ha fatto il nazismo. Ma è solo nella coscienza della propria utilità sociale che ognuno acquisisce fiducia in se stesso e conseguente stabilità psicologica. Insomma, è solo da una regia capace di mettere in moto tutte le energie e strategie possibili, che si può evitare di trasformare il carcere in deposito d’immondizia, da collocare il più lontano possibile dalla vita quotidiana. L’indulto voluto dal governo ha il profilo di una festa a tarallucci e vino, dove, «finita la festa, gabbato lo santo». Se il problema è quello delle carceri sovraffollate, bisognerà provvedere a costruirne di nuove nell’immediato, oppure creare percorsi alternativi dove scontare la pena, perché quando molti dei beneficiati rientreranno, dove li metteremo?
Ridurre il problema dei carcerati a una questione di posti vuol dire, per paradosso, creare la cultura dell’impunità per cui, più si commettono reati, maggiori sono le chances di soluzioni sbrigative o di sconti a buon mercato, con le conseguenze che ognuno può prevedere. Il rispetto della legge e quindi il senso della legalità non possono trovare linfa che li alimentino dentro lo scenario di uno Stato che è impotente nella gestione delle pene e, di conseguenza, nella tutela del cittadino onesto. Immagino che qualche cattolico troverà scarsa logica di misericordia in queste parole. Non sarebbe male se anche all’interno della Chiesa si facesse chiarezza tra perdono e perdonismo.
Dietro il «rompete le righe» delle prigioni avverto tanto buonismo ipocrita, che è tutt’altra cosa della bontà. Perdonare non è necessariamente sconto, chiusura degli occhi sulle miserie, far finta di niente. È piuttosto un sussulto di fiducia, credere che l’errore umano non può mai essere la fotografia, irrevocabile, tombale, che racconta la verità delle persone. Perdonare è piuttosto strategia che favorisce il riscatto, come si fa con un ragazzo bocciato, su cui si lavora con pazienza perché raggiunga l’obiettivo.

Fuori da questa logica, anche uno strombazzato indulto può avere il valore solo di un po’ di cipria.

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