«Perdonatemi quell’appello contro Calabresi»

«Le farò una confidenza: sono stato io l’inventore del fortunato titolo del libro di Marina: I miei primi quarant’anni. Ma adesso che io taglio il traguardo doppio, non riesco ad immaginare sotto la mia torta una didascalia simile, del genere: i miei primi ottant’anni. Sa, a quest’età è meglio non scherzare».
Carlo Ripa di Meana festeggia con la consorte Marina.
Inviterà gli amici nella casa di Roma?
«No, guardi, mi annoierei».
E perché?
«Perché non mi va di partecipare alla caccia alla volpe».
Chi è la volpe?
«Il Cavaliere che, pure, ne ha fatte. Gli amici, quelli che frequento, passerebbero la serata a parlarne male. Sento già il suono del corno, vedo la muta famelica dei cani che raspano nel bosco. No, grazie. E poi c’è qualcosa di vecchio e tirannico nell’imporre il compleanno a qualcuno».
Addirittura?
«Ma sì, la festa si trascinerebbe e si trasformerebbe in un’elencazione asfissiante di chi c’è e di chi non c’è, di chi si è ricordato e ha telefonato e di chi si è dimenticato. Troppa ansia. Troppo cerimoniale. Troppa etichetta. Alla mia età voglio essere più libero».
Insomma, cosa farà?
«Partirò da Roma in macchina. Marina invece prenderà l’aereo».
Non capisco.
«Ma sì, ci rivedremo a Pietrasanta per l’ora di cena».
Perché a Pietrasanta?
«Perché ho trovato un bellissimo foglio con grafia ottocentesca in cui il segretario del sindaco di Pietrasanta dice che in data 15 agosto 1929 il marchese Giulio Ripa di Meana gli ha comunicato la nascita di un figlio di sesso “mascolino”: Carlo. Capisce? Sono nato in Versilia e in Versilia tornerò».
Porterà con se Riso-Risotto, Mela, Mango, Moka?
«Rimarranno a Roma, tranne Mango, che è un tipo lonely, non fa branco con gli altri tre. Abbiamo accudito il quartetto per i primi dieci giorni di agosto: anzi, per dirla tutta siamo rimasti con i carlini a Roma perché il dog sitter era in vacanza».
È una vita complicata?
«Molto divertente».
Ottant’anni: è tempo di bilanci?
«Li sconsiglio. Sono una sindone: un lenzuolo che avvolge i cadaveri».
E che cosa consiglia?
«A quota ottanta non devi più impugnare lo spadone di mezza età o la durlindana, adatta agli ardori della gioventù. Devi esser concentrato, non disperdere le energie, puntare su qualcosa di chiaro e forte».
Che cosa impugnerà da oggi?
«Lo stiletto. Acuminato».
In pratica, di cosa vuole occuparsi d’ora in poi?
«Non inseguo più l’idea di cambiare il mondo».
Che cosa insegue, oltre a sua moglie Marina?
«Scopi precisi, limitati, contingenti».
Per esempio?
«Voglio salvare un balcone barocco di Lecce».
Oppure?
«Visto che vado in Versilia, voglio impegnarmi in difesa del marmo meraviglioso delle cave che è consumato, smangiato, spossato, perché richiestissimo nelle tecnologie industriali dei filtri. Ma quella della Versilia, con quelle cime aguzze amate dagli scultori, è l’ultima cordigliera di marmo del pianeta».
Lei è candidato alla Presidenza di Italia Nostra: si scontrerà con Nicola Caracciolo e Salvatore Settis?
«Ma no, vede, in Toscana c’è un pupazzo che torna sempre su. Si chiama Misirizzi e io non voglio imitarlo stancamente. Non voglio essere accreditato come il rieccolo: ho già guidato Italia nostra, l’ho risollevata perché di fatto era morta, ora tocca ad altri. Poi il comando esige l’arte della mediazione. Ma io, come le ho detto, non voglio più stare in mezzo. Lo stiletto non è adatto alla guida».
Ma lei a che cosa è adatto?
«Io voglio stare su obiettivi circoscritti. Per esempio, voglio demolire questa bizzarra pretesa dell’uomo di oggi di confezionare il clima».
Ce l’ha con il partito dei catastrofisti, con quelli che si lamentano perché i ghiacciai si sciolgono e gli orsi polari annegano?
«Ma sì, panzane clamorose. C’è chi è accecato al punto di coltivare perfino l’idea folle di pompare l’eccesso di anidride carbonica nelle miniere abbandonate. L’uomo contemporaneo ha smarrito se stesso».
Qualcuno pensa che lei sia un aristocratico signore che fra una tazza di tè e l’altra, si batte per cause nobili, alla moda. Un po’ come Carlo d’Inghilterra. Solo che le sue prediche sono agli antipodi del Carlo pensiero.
«Appunto. Viviamo in un mondo dove tutto è uguale, ripetuto, levigato, politicamente corretto. Io voglio essere politicamente scorretto. Non come Gianfranco Fini».
Che c’entra?
«Va in giro con queste cravatte rosa mazzancolle d’ordinanza. Da lui mi aspetterei la difesa del Foro Italico, dell’Eur, invece sento solo soffietti laicisti a Veronesi. Che tristezza. Abbiamo bisogno di spiriti liberi: ai miei tempi c’era Leo Longanesi, c’era Mino Maccari».
Oggi?
«Oggi vicino casa, intorno al Vaticano, vedo un’epidemia di cappelli di panama e di pantaloni zompafossi con i laccioli. L’umanità è manipolata come plastilina: la stringono e ne ricavano spaghetti, treccioni, forme strane».
Lei ha avuto più vite di un gatto: comunista, socialista, verde, ministro, Commissario europeo per l’ambiente. Quale è stata la più interessante?
«Senz’altro quando ero Presidente della Biennale di Venezia. Che divertimento. Quell’allegria mi è rimasta dentro fino ad oggi».
Insomma, è contento della sua vita?
«Vede, io credo nel grande disegno e sono convinto che sarò giudicato per quello che ho fatto. Io mi sono battuto, ho sposato delle cause, ho rischiato qualcosa di mio. Sono un soldato di ventura. E sono stato perfino utile: ho fatto circolare in Italia gli autori del dissenso dell’Est, “Charta 77”. Credo di non aver lasciato cadere le occasioni che mi si sono presentate».
Che cosa ha sbagliato?
«Di una cosa devo chiedere scusa: di aver firmato sciaguratamente l’appello in cui si indicava il commissario Luigi Calabresi come responsabile della morte di Pinelli. Mi è pesato per anni, è stato un abbaglio gravissimo, un gesto sconsiderato che ha permesso al commando di assassini di sentire alle spalle la rassicurante solidarietà di un vasto sinedrio di intellettuali. E pensare che Calabresi lo conoscevo. Ero segretario al Club Turati, nella Milano che virava verso il centrosinistra, e lui veniva ai nostri incontri: una persona perbene. Sembrava uscito dal Mit di Boston, un uomo modernissimo. Chiedo perdono alla vedova e alla sua famiglia. Pubblicamente. E guardo avanti per quel che mi resta».
Con Marina come va?
«Auguro tutto il bene che si può volere per la mia vulnerabile Marina. Marina che ha capito».
Che cosa?
«Che volevo sposarla in chiesa. Così, dopo il matrimonio civile c’è stato anche quello religioso. Ben oltre il contratto stipulato fra due persone e spiegato alle parti dalle sciarpette tricolori a bandoliera dei sindaci. La liturgia è un traguardo importante nella mia corsa verso l’eternità».


Ha paura?
«No. Sono curioso. Finalmente rivedrò i miei adorati genitori, Vittorio, il più vecchio di sette fratelli che non c’è più, e alcuni personaggi che mi stimolano moltissimo. Pensi: “Piacere Ripa di Meana, piacere Voltaire”».

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