
Con Cecchi Gori è stata una guerra. Ha cercato di annientarmi. Sono ancora qui. Sono un tipo piuttosto forte. Mi chiedi se sono mai triste? Sì, certo, alle volte sono triste, ma poi il giorno dopo c'è il sole».
Parla Rita Rusic, 64 anni, decisamente bella, attrice, cantante, produttrice cinematografica di successo, per quasi vent'anni fidanzata e moglie di Vittorio Cecchi Gori, grande imprenditore, re del cinema, figlio d'arte, ex proprietario della Fiorentina, finito poi nei guai. Nella vita di Rita molto impegno, molto lavoro, studi e amori. È nata in Jugoslavia. Quando aveva quattro anni i genitori decisero di fuggire in Italia. Loro due, Rita e la sorella Lierka.
Cosa ricordi di questa fuga?
«Siamo arrivati in Italia nel 1964. Avevo 4 anni. Siamo entrati come turisti e poi siamo andati a fare la fila al campo profughi di San Sabba, che è un ex campo di concentramento a Trieste. Li ti davano i documenti, dividevano i maschi dalle femmine e ti mandavano allo stanzone. Noi bambini andavamo con la mamma. Il papà da un'altra parte. Lo stanzone era pieno di letti, uno sopra all'altro, i materassi erano luridi, polvere, macchie di sangue».
Tuo padre?
«Ogni tanto lo incontravamo, ma molto raramente».
Potevate uscire dal campo?
«No, per carità! C'era il filo spinato».
Tu dove stavi?
«Io stavo in un letto al centro della stanza e piangevo. Mia sorella diceva: Torniamo indietro, torniamo da nonna. Io dicevo: No, indietro non si torna».
Ci siete stati molto?
«Qualche mese, poi ci trasferirono in un altro campo a Latina, e poi al campo di Capua, dove siamo rimasti tre anni e mezzo».
Scuola?
«Andammo in collegio. Ci accompagnarono papà e mamma. Io ero contenta. Poi quando i genitori sono andati via mi ha preso la disperazione. Quanti pianti...».
Ti ha forgiato?
«Sì. Diventi un soldato. Devi cavartela da sola. Io avevo paura del buio quando chiudevo gli occhi. Sai quando dentro gli occhi vedi tutti i colori? Mi terrorizzavano. E non c'era la mamma a consolarmi».
E allora che facevi?
«E allora mi ero offerta la sera di pulire le scarpe di tutti. Così tiravo tardi e mi sentivo speciale».
Era dura la vita in collegio?
«Molto severi, ma mai violenza. Ci mettevano le posate sotto le ascelle quando mangiavamo per insegnarci l'educazione a tavola».
Religione?
«A maggio a messa tutte le mattine. E poi bisognava fare un sacrificio, un fioretto, scriverlo su un foglietto e offrirlo alla madonna».
E tu che fioretto facevi?
«Non sapevo che fare, e allora mi mettevo i sassi nelle scarpe. Un dolore pazzesco. Però mi sembrava la cosa giusta».
Quando eri piccola cosa avevi immaginato di fare da grande?
«Mi ricordo che una volta me lo chiesero e io risposi così: Mettermi su una poltrona, battere le mani e dal soffitto cadono i soldi...».
Oddio, eri fantasiosa..
«È che mia madre mi aveva raccontato che una volta una mattarella, nel paese dove vivevamo in Croazia, mi aveva visto e aveva detto: Questa bambina diventerà famosa».
Quando stavi con Cecchi Gori finalmente avevi i soldi e hai detto: è la mia felicità?
«No. Io non volevo avere, volevo fare. I soldi servono solo ad essere liberi. A non dovere dire sempre di sì. Sono stata felice solo quando ho iniziato a lavorare. La mia soddisfazione era andare avanti».
Quanto è importante per te il denaro?
«Da piccola, per capire se una persona era ricca o povera gli guardavo le scarpe».
Perché le scarpe?
Perché io, quando pioveva, dovevo indossare sempre le scarpe più brutte e vecchie per non sciupare le nuove. Invece i ricchi se ne fregavano di non sciuparle. Non sai che soddisfazione mi da, oggi, andare nelle pozzanghere con le scarpe più belle!».
Quando hai lasciato Cecchi Gori cosa è successo?
«È stata una guerra. Beh, diciamo una rissa e in una rissa il primo cazzotto è il più importante. Il primo cazzotto l'ho preso io».
E poi?
«Poi ho preso il secondo, il terzo».
Chi ti ha aiutato?
«La mia famiglia. Mia sorella, grandiosa. E poi mio padre e mia madre. Incredibilmente saggi e generosi».
Però c'è chi dice che Vittorio Cecchi Gori sia stato determinante nel tuo successo?
«Certo, determinante per farmi iniziare. Questo lo so. Poi però, quando lavori, nessuno ti può aiutare. Se vali va bene, se non vali non si può fare niente. Ti parlo di uno dei primi film di successo che ho prodotto: Il ciclone, quello con Pieraccioni. Vittorio l'ha visto solo quando era montato. Mi aveva detto: Ma che fai con quel bischero?. Quando ha visto il film finito ha cambiato idea: Questo fa un mucchio di soldi.»
E quando ha lasciato Cecchi Gori?
«Lavoravo nel gruppo da 18 anni. Tutta la mia vita era lì, nel gruppo di Cecchi Gori. Non solo la mia vita privata, ma il mio lavoro, la mia identità. È stato terribile. Perdevo tutto, anche il mio io. Una sofferenza che non puoi immaginare».
Fu brusca la separazione?
«Vittorio era un uomo molto forte e molto arrabbiato con me. Disse a tutti: Non dovete avere più niente a che fare con lei. Un giorno dovevo vedere Leonardo. Avevamo appuntamento il pomeriggio. All'ora di pranzo torno a casa e trovo un suo messaggio nella segreteria del telefono. Ti devo parlare. Strano - mi dico - non mi chiama mai a casa. Richiamo e lui balbetta: Sai, Vittorio è un po' arrabbiato Meglio che non ci vediamo. Una legnata. Piansi tanto».
Solo con Pieraccioni o anche con altri?
«Con tutti. Chi più chi meno. Volatilizzati. È successo con Antonio Albanese, col quale avevamo avuto successi incredibili, persino con Vincenzo Cerami, che pure era uno scrittore molto affermato, è successo con molti registi amici, anche con Virzì».
È vero che Cecchi Gori le tolse anche tutte le risorse?
«Pensi che in garage avevo cinque macchine. Beh, la mattina dopo non c'erano più. Le aveva fatte portare via tutte col carro attrezzi. Sono passata dagli aerei privati, la servitù, i soldi a pioggia, a dover ripartire praticamente da zero».
Si è sentita sola?
«Ero sola. Ho reagito. Ho fatto quello che avrei dovuto fare a 20 anni e che non avevo fatto. Sono andata in America, ho mandato la mia prima lavatrice, ho imparato a fare la casalinga. E la sera andavo a ballare come i ragazzini».
Cambio argomento. Cosa pensa della polemica sollevata da Michele Morrone sul cinema italiano?
«Io dico: tu sei un bel ragazzo, sei diventato un attore, hai avuto fortuna, successo, non hai studiato ma hai
sfondato lo stesso. Benissimo. Bravissimo. Ma questo non vuol dire che quelli che hanno studiato e frequentato il centro sperimentale e l'Accademia Silvio D'Amico siano dei brocchi. Polemiche inutili. Fanno male al cinema».