Quaranta anni al fronte raccontati a colpi di foto

Gli scatti di Fausto Biloslavo (con Francesco Semprini) cristallizzano per sempre, l’orrore dei conflitti che dilaniano il presente. Ieri ha vinto il premio Casalegno per i suoi reportage di guerra

Quaranta anni al fronte raccontati a colpi di foto

La guerra, la guerra cristallizzata in scatti fotografici. L'enormità della violenza colta dal dettaglio, imprigionata in uno sguardo o in una uniforme lacera. Questo è quello che il pubblico newyorkese troverà nella mostra «Bearing Witness», (essere testimoni) realizzata all'Istituto italiano di Cultura (686 Park Avenue, New York). Organizzata grazie a una intuizione di Fabio Finotti è la prima mostra di foto di guerra di giornalisti italiani nella Grande Mela. Resterà aperta dal 25 maggio al 23 giugno, ed è incentrata sugli scatti di Fausto Biloslavo, accompagnati da alcune foto del collega e amico reporter Francesco Semprini. Biloslavo, la cui capacità di raccontare i conflitti i nostri lettori conoscono bene, ha riunito per l'occasione il meglio del suo lungo e complesso lavoro fotografico, durato quarant'anni. Si parte con il Libano nel 1982, si passa per le guerre sporche dell'Africa post coloniale, per raggiungere la polveriera mediorientale e l'odierno conflitto ucraino. La potenza delle immagini, alcune le vedete in questa pagina, parla da sola. Ma la mostra, oltre a portare il visitatore all'interno della galleria degli orrori degli ultimi conflitti, consente anche di vedere come è cambiato il giornalismo. Biloslavo ha attraversato tutti i passaggi che hanno portato dalle macchine reflex alla fotografia digitale. Racconta a Il Giornale, spiegando le tre ideali sezioni della mostra come è stato il suo inizio nell'era eroica della pellicola: «La calca di giornalisti e fotografi che attendeva al varco Yasser Arafat, in ritirata da Beirut nel 1982 davanti ai carri armati israeliani, mi sembrava insormontabile. Armato di un paio di vecchie macchine fotografiche reflex, penzolanti al collo, pensai bene di aprire la portiera dell'ultima vettura di scorta. Dalla Mercedes scassata spuntò la canna di un Kalashnikov. In inglese stentato riuscii solo a dire che ero un giornalista italiano e volevo fotografare il capo dei palestinesi. La guardia del corpo con il Kalashnikov in pugno mi rispose con un rassicurante accento bolognese: Ho studiato in Italia, salta su. Grazie al colpo di fortuna passai la canea dei giornalisti e tutti i posti di blocco. Unico fotografo presente mi tremavano le mani, mentre scattavo a raffica l'addio di Arafat da Beirut... Alla fine tirai fuori il rullino che pensavo fosse il migliore e mi presentai all'hotel Cavalier a Beirut ovest. Per un pugno di dollari lo comprò Time». Poi la tecnica è cambiata è arrivato il digitale ma i rischi della professione sono rimasti gli stessi. «Oggi scatti, guardi se la foto è venuta bene - ci spiega - nel caso la cancelli e rifai l'inquadratura. Poi mandi via posta elettronica, dal deserto iracheno o dalle montagne afghane, e in redazione sparano le foto in pagina in un attimo, in un attimo. Mai avrei pensato di fotografare la scena di un caduto italiano in Afghanistan, dopo l'11 settembre, che in qualche maniera ricorda il Vietnam. Ancora meno seguire nel deserto le truppe alleate durante e dopo l'invasione dell'Irak trovandomi nell'Humvee di una colonna del Grande uno rosso, la prima divisione di fanteria Usa, sotto attacco degli insorti». Una storia personale, di passione e di rischio, che arriva sino alla guerra in Ucraina che Biloslavo vi racconta spesso da queste pagine. «Alle prime cannonate dell'invasione nel Donbass pensavo che le colonne russe sarebbero entrate in Ucraina come il coltello nel burro. Non è stato così e nel primo anno di guerra nel cuore dell'Europa ho passato oltre quattro mesi sui fronti più duri del conflitto. Per la prima volta lo smartphone di ultima generazione ha sostituito la macchina fotografica. Dal dramma dell'evacuazione attraverso il ponte distrutto di Irpin, al Davide ucraino che combatte contro il Golia russo fino ai civili che sopravvivono nelle catacombe moderne dei rifugi ricavati negli scantinati, ho scattato le immagini con un cellulare. Tante altre, che per motivi di spazio non sono esposte in questa mostra, mi rimarranno per sempre impresse nell'anima». Ma le immagini che vedete cristallizzano meglio di ogni parola quale sia la forza, e l'essenza, del fotogiornalismo. L'unico capace di portare il lettore a vedere coi suoi occhi la realtà. In un'epoca in cui le immagini possono sempre più trasformarsi in fonte di inganno, anche per l'arrivo della capacità distorsiva dell'intelligenza artificiale, il fatto che restino professionisti, disposti a correre grandi rischi, diventa un presidio sempre più importante per l'informazione. Quello che riportano a casa sono immagini che toccano in profondità, come quella della bambina afghana vestita di rosso, travolta dal tradimento occidentale, che non verrà evacuata da Kabul o quella dei migranti imprigionati in Libia.

Frammenti di inferno che ci insegnano che la nostra libertà è fragile e, al momento, non per tutti. Per capirlo basta guardare gli occhi del bambino soldato fotografato da Biloslavo in Africa nel 1986 (Uganda). Nessun artificio digitale ve lo racconterà così.

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