Peter Cameron ovvero biografia a scatole cinesi

Uno studente iraniano sulle tracce di uno scrittore ebreo fuggito nella pampa. Vuole scrivere una tesi su di lui, ma farà tutt’altro...

Sono cinquantasette. Alla lunga non abbiamo saputo resistere e li abbiamo contati. Per cinquantasette volte, in un romanzo costruito sulla leggerezza delle conversazioni, scolpito battuta su battuta con l’ammaliante solidità di un castello in aria, tenuto in equilibrio con precisione metronomica sull’alternanza dei botta e risposta, l’interlocutore di turno, interloquito, risponde: «Ah». Prende atto così - puntando al minimo di emotività e verbosità, al massimo di espressività e teatralità - di una notizia, una confessione, un commento che lo lascia a tutti gli effetti senza parole. Ma Peter Cameron, maestro di dialoghi e di colpi di scena, sa fare anche di meglio. E inscenando i dialoghi di Quella sera dorata (tradotti con ritmica sintonia da Alberto Rossatti per Adelphi, pagg. 318, euro 19) fa ammutolire i suoi personaggi tanto da toglier loro perfino il filo di voce bastevole a emettere il vocalizzo di chi resta a bocca aperta.
Tacciono sapientemente però. Premeditatamente. Come la piccola Porzia, che sui banchi di scuola ha già collaudato tutte le malizie cui ricorrere per affrontare la conversazione come un’interrogazione: «Aveva otto anni, e aveva scoperto da poco che far aspettare una risposta dà una specie di potere». O il medico di famiglia che, prima di pronunciare la sua diagnosi «assaporò per un attimo la bellissima emozione di quella donna, e il proprio potere su di lei». O come Caroline, la sorella gelosa, la moglie tradita, l’artista frustrata che, ricevendo una visita - «Posso disturbarla?» - nel suo atelier-torre d’avorio, «non disse nulla e, immobile, con uno strano sorriso sulle labbra, gustò a lungo l'effetto del suo silenzio». Tacciono perfidamente. Ferocemente. Puntando al minimo dell’enfasi plateale, al massimo dell’umorismo complice e maligno.
Dei mutismi e i monosillabi infilati come sincopi o pause sceniche nella prosa del 47enne autore del New Jersey - di studi londinesi però, e laurea in letteratura inglese, di giovanili esordi poetici, debutto narrativo con racconti brevi sul New Yorker e attuale domicilio da libero scrittore e impegnato ecologista al Greenwich Village - tanto si può dire. Il resto, per chi ancora non ha letto il suo quarto romanzo, è tutto da immaginare.
Anche per chi l'ha letto. Della biografia immaginaria di uno scrittore, infatti, si racconta. Del pressoché dimenticato Jules Gund, autore di un singolare - e unico - bestseller, La Gondola, che vita avventurosa e misteriosa avrà anche vissuto (ammesso che sia mai esistito, il che fino alla fine resta incerto). Ma di cui non è appunto dato di scoprire molto più di quanto Cameron immagini di far cercare al biografo protagonista del suo romanzo. Così, più che alla vicenda del romanziere ebreo tedesco fuggito dalla Germania hitleriana, rifugiato nella pampa uruguayana e ancora scappato da una ventennale crisi creativa nel folto del bosco dove si sparò un colpo in testa, si finisce per perdersi dietro alle peripezie di Omar Razaghi: il volonteroso studente iraniano, dottorando all’ateneo americano del Kansas, spedito in Uruguay per strappare agli eredi di Gund il permesso di scrivere la sua tesi.
In ordine sparso Razaghi dovrà affrontare: un viaggio all’altro capo del mondo e il fantasma di un castello bavarese risorto in Sud America sulle rive di un lago inesistente. «Un vecchio di stirpe europea», il fratello maggiore di Gund, «e un giovane di discendenza asiatica», il suo partner. Un amore esotico, omoerotico e senile, e un triangolo ottocentesco di passioni consumate e confessate. Una velenosa dark lady, la vedova nera del narratore suicida, e la vera signora che fu la sua amante. Contrabbando di anticaglie. Falsi d’autore. Sabbie mobili. Api assassine. Voli in picchiata dalla cima di alberi da frutta.
Il polso di un romanzo a tutti gli effetti «d’azione» è sostenuto e sospinto più che dalla raffica dei colpi di scena, da certe battute micidiali: «Non ha molto senso essere vivo e dotato di denti e non mangiare carne». «Natura morta: è una miscellanea di cose difficili da dipingere sbattute su un tavolo perché l’artista possa darsi un po’ di arie». O da certi micidiali silenzi: da guardare sulla pagina e immaginare recitati.
Recitati, presto anche, li si vedrà. James Ivory sta infatti per trarre un film da The City of Your Final Destination (titolo originale del romanzo uscito nel 2002). E nessuno meglio del regista di I Bostoniani e The Golden Bowl potrebbe fissare in celluloide le impalpabili atmosfere da drawing-room comedy che hanno fatto gridare allo Henry James del XXI secolo. Ma il tocco di Peter Cameron ha fatto scattare le associazioni più sfrenate tra i critici, che ci hanno visto la perfidia di Muriel Spark e la reticenza di Elizabeth Bishop, i sogni (da Midsummer night) di Shakespeare e le visioni di Wilde, gli incubi di Kafka e le finzioni di Borges, l’eleganza soave di Jane Austen e il realismo fiabesco di Charles Dickens. Di suo, l’americano si è scelto invece quattro angeli custodi (e luciferini), quattro fate torbide (piuttosto che turchine).

Rose Macaulay, Barbara Pym, Penelope Mortimer ed Elizabeth Taylor: quattro scrittrici femmine, intelligenti e cattive, maestre di eleganza, divertimento e disincanto capaci all’occorrenza di ordire gli incantesimi che scatenano l’immaginazione.

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