Philippe Grimbert: un segreto perfetto

Philippe Grimbert: un segreto perfetto
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Romanzo forse troppo perfetto, questo secondo dello psicanalista e scrittore francese Philippe Grimbert, Un segreto (Bompiani): non ha sbavature né cedimenti, perfetto nell’ingranaggio della trama, nel susseguirsi dei colpi di scena, nella lingua misurata e regolare. Avvincente, persino toccante, in certi punti. La vicenda è di per sé drammatica; e ben si comprende come un simile passato possa avere segnato l’esistenza del giovane protagonista - che è poi il narratore medesimo nei suoi primi anni. Il quale, dotato dei necessari strumenti, ha usato la penna, appunto, per il suo atto liberatorio, e per dare infine pace a una nutrita serie di anime inquiete. La consapevolezza di ciò che ci ha preceduto, e che impasta la nostra stessa individualità, significa l’ingresso nell’età adulta. Il vero danno è non sapere. «Per questo non soccombevo più sotto il peso di quel silenzio» è detto quasi in chiusura di libro. «Da quando potevo dare loro un nome, i fantasmi avevano allentato la stretta: stavo per diventare uomo». La storia è una lunga storia di morti: quelle causate dai terribili eventi comuni, l’occupazione nazista in Francia, il genocidio degli ebrei (perché il vero nome dell’autore è Grinberg, nettato dal padre dalla n e dalla g, «le due lettere divenute portatrici di morte»); e le morti private, le singole tragedie che accompagnano e si intrecciano alla Grande Sciagura. Atroce e doppia scomparsa, poi, nella sorte subita da tutti: a causa di quell’«imperativo del silenzio» che anche il narratore ha conosciuto in seno alla propria famiglia. La resistenza degli ebrei, dei sopravvissuti, a parlare della «notte», per usare il termine di Elia Wiesel, è qui ancor più forte perché cela un immenso senso di colpa: a causa di circostanze personali - e di una dall’apparenza particolarmente frivola, appetto alla morte: un innamoramento - due creature innocenti sono svanite nel fumo in un cielo straniero. Con sapienza Grimbert dipana la sua matassa; tenendo sempre il lettore col fiato sospeso, e allorché tutto sembrerebbe finalmente acquetarsi, un nuovo lutto, una morte violenta, si aggiunge ai precedenti. Romanzo umbratile, soprattutto nella prima parte, all’insegna del silenzio, di un «segreto» che pesa sulle fragili spalle del piccolo e sgraziato protagonista («teatro d’ombre» egli definisce quegli anni). Il narratore dissemina qua e là le sue spie (l’allusione reiterata alla menzogna, un trasalimento della madre, una mezza frase udita di sfuggita) in modo che il lettore sappia di doversi aspettare qualcosa di eccezionale, ma sino alla metà buona del libro non comprende di che si tratti. Il «fratello d’ombra» che il ragazzino si è inventato, forte e atletico come lui non è, un fratello che lo protegge e che illumina la sua tetra infanzia, dimostra infine la sua vera natura: il fantasma di un fratello realmente esistito, alla cui morte, e solo ad essa si deve l’esistenza del secondo, di lui medesimo.

In un assommarsi di indizi, il cono di luce a poco a poco si allarga, i personaggi acquistano fisionomia; e il protagonista, proiettandoli al di fuori di sé, diventa via via più leggero, e pronto ad affrontare il suo cammino con una sicurezza nuova. E fa i conti con quella parte di sé che il fratello d’ombra misteriosamente incarnava: e se ne riappropria, realizzando quell’unione, quell’integrità dell’io che dicono qualità suprema dell’età adulta.

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