Come quando ero bambino e a Roma nevicava su per giù ad anni alterni, venerdì ho passato una nottata insonne aspettando una seconda tormenta di neve. Ma non perché mi fossi rimbecillito: dovevo prendere un aereo (che poi non ho potuto prendere) e tutti i giornali e telegiornali, siti Internet e blog, avevano annunciato che stava per abbattersi sulla capitale la bianca ira di Dio nella notte fra venerdì e sabato con una coda di rinforzo mattutina fino a mezzogiorno. Sembrava che quelli della televisione ci prendessero gusto annunciando con voce atona e ritmo martellante l’arrivo di temperature siberiane, vento gelido e neve, neve a milioni di tonnellate: romani, per voi è finita, sarete sepolti dall’apocalisse. Era una balla. Intendiamoci: aveva nevicato fortemente nella giornata di venerdì e ne avevamo già abbastanza, ma quel che doveva arrivare ieri mattina, nessuno l’ha visto. Anzi, è stato visto ed era un bel sole tiepido. Tuttavia la città era rimasta pietrificata.
Dapprima aveva cominciato a venire giù quel materiale bianco e distratto di cui si era persa la memoria. E subito le auto si sono messe a pattinare, gli alberi a esercitarsi in prove di schianto, gli adolescenti a urlare per le strade come invasati, gli autobus a mettersi di traverso e i taxi, i famosi taxi della protesta, erano spariti, vaporizzati, mai visti. La città era diventata magnifica e spettrale. Tutto ciò che è servizio era in tilt, ma non si può neanche pretendere miracoli e ripetere la solita tiritera sulla Capitale in ginocchio. In compenso, tutto ciò che è immagine, panorama, emozione, era fantastico, fuori dalla portata della memoria: ha sempre nevicato, ma ogni volta è diverso. E Roma si mostrava per la prima volta malgrado i millenni, bianca. Nuove generazioni di romani, i ventenni o giù di lì, hanno visto la neve fuori, ma mai in casa.
Abbandono la mia 500 su una strada in salita perché le auto davanti a me danzano la quadriglia. Addio cara macchinetta, ti ritroverò in letargo sotto un calco di marmo friabile. Addio anche all’altra macchina che resta sepolta sotto gli alberi che cominciano a cedere. Sono contento di assistere alla nevicata perché mi ero persa l’ultima veramente seria, quella del febbraio del 1986 quando Roma si paralizzò in bianco e tutto andò storto e la neve infuriava. Me l’ero persa perché ero a Varsavia a seguire il processo dopo l’omicidio di padre Popieluszko, un prete ribelle al regime comunista che fu ammazzato da un capitano della polizia. A Varsavia la neve era più alta e fitta e vasta che a Roma e dai racconti telefonici sentivo la differenza: a Roma era una neve con le nacchere, con la gente che sciamava nelle strade; a Varsavia era grigia e fumosa come la mia interprete, una spia messami alle calcagna dal cosiddetto centro stampa, alzava il volume della radio quando voleva dirmi qualcosa perché i microfoni nascosti erano anche nel bagno. Le spie che venivano dal freddo, a quei tempi venivano davvero dal freddo: meno trenta gradi mentre a Roma si stava a meno cinque. Adesso, mentre scrivo, a Roma sembra primavera.
Andato a dormire alle tre di notte per inseguire al telefono aerei e taxi inesistenti, dopo aver spalato la mia macchina, ho assorbito tutte le notizie che avvertivano quel che stava per arrivare. Ma è stato un po’ come ne La guerra di Troia non si farà di Jean Giraudoux: la nevicata da fine del mondo, o almeno da fine di Roma, non si è vista. Ho controllato su un sito internet micidiale che ti dice con mezz’ora d’anticipo tutto quello che accadrà nel futuro, almeno meteorologico. E alle 5 di mattina si è visto che il cielo sarebbe rimasto cupo, ma che alla neve si sarebbe sostituita un po’ d’acqua. E così è stato. Il cielo si è rischiarato, i romani sono usciti come lumache e si sono riversati nel centro storico sguazzando nella fanghiglia e io con loro.
La città è effettivamente in ginocchio, ma non ferita mortalmente: stordita. Fanno affari d’oro i negozianti di scarpe che vendono ogni sorta di scarponcino o stivale da neve, la fila fuori sul marciapiede, 49 euro e ti porti via un paio di calzature sintetiche ma funzionali. Autobus, pochi. Spazzaneve, fantasma. Devono aver lavorato perché le strade principali a mezzogiorno erano sgombre, ma non si vedevano le loro divisioni corazzate. Molti volontari in giro che si offrono di spalarti la neve davanti alla casa o dal tetto della macchina e molti dipendenti del Comune in giaccone arancione con sega elettrica perché gli alberi di villa Borghese, specialmente le magnolie, sembravano antilopi abbattute dal leone. Brandelli, sculture vegetali raccapriccianti.
Roma era ieri pomeriggio ormai diafana, tiepida e bianca. Uno spettacolo oltre la retorica. I turisti coreani e giapponesi si sono battuti valorosamente a pallate di neve ai bordi di piazza del Popolo. E, a proposito di popolo, un intero popolo di impreparati girovagava con improbabili mise sottratte alla naftalina: zucchetti, giacconi, guanti spaiati, colbacchi, cappelli da cowboy in testa a gentiluomini che avresti detto decani universitari, signore bardate come i cavalli delle carrozzelle e naturalmente una pletora, una diffusa invasione di ragazzi e ragazzini di tutte le lingue e colori, perché Roma è ormai se non un melting pot, almeno una cagnara di etnie disperse e ogni volta radunate sotto il segno del pessimo e fluente inglese dei ristoratori e venditori di souvenir.
Gli alberi restano piegati. Ricordo che nel 1956, altra nevicata multipla da far paura, reggimenti interi di pini marittimi caddero sotto la violenza siberiana. E anche oggi le piante gemono, si piegano le palme e flettono i grandi pini orchestrati da Respighi umiliandosi fino a terra. Poi, uno schianto terrorista e un ramo pesante come un tram piomba al suolo stecchito. Gli insetti arancioni con la motosega lo smembrano e lo digeriscono.
Le previsioni dicono che il peggio è passato, ma le previsioni sono largamente imprecise. Per questo ho passato una notte a spiare queste divinazioni che non corrispondevano mai alle profezie televisive.
Roma è senza fiato e senza mezzi di trasporto, le scuole sono chiuse ma in definitiva è weekend, dunque è più festa che disastro. I telegiornali non sanno più a che santo votarsi per fare un servizio decente sulla neve, ma la neve purtroppo implica la banalità del prevedibile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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