nostro inviato a Torino
Dopotutto, un passo avanti. Uscendo dal palco, come fa sempre durante questo tour partito lanno scorso a Barcellona, anche venerdì sera Bono ha alzato gli occhi al cielo salutando il pubblico nella curva dellOlimpico. Di sicuro ha pensato: è andata, abbiamo fatto un passo in più. Forse aveva qualche timore, non solo per quella maledetta schiena sguerciata che lo obbliga ancora a tre, quattro ore di fisioterapia al giorno: gli U2 sono troppo grandi, così grandi che, se non si rinnovassero ogni volta, sembrerebbero più vecchi di quel che sono. Stavolta no: anche se il palco, il tanto contestato e mostruoso The Claw, rimane lo stesso, lo show è più compatto e meno autoreferenziale. Bono ha messo più rock e meno slogan nei suoi cannoni e in scena si respira meno quellaura impegnata - sapete la campagna per la riduzione del debito del Terzo Mondo - che aveva senso presentare nella prima frangia della tournèe ma a lungo sarebbe diventata (troppo) strumentale. Cerano, ovvio, lintervento filmato di Desmond Tutu e MLK, la ninna nanna da Unforgettable fire dedicata a Martin Luther King. Ma niente annunci epocali o refrain solidaristici, tutta roba che forse Bono, magari su consiglio degli altri tre, ora preferisce mantenere separati dallo show. Per farla breve, è stato un signor concerto rock, non un grande concerto ma un concerto speciale, che lui ha iniziato, come sovente gli capita, con la voce in sordina durante Beautiful Day e Magnificent (complice anche un audio che non mandava in tribuna la chitarra e impastava la batteria) e poi calibrata, accesa, intonatissima in Miss Sarajevo (strepitosi gli acuti nella parte che fu di Pavarotti) e furibonda in Sunday bloody sunday che ha ventotto anni e gli U2 suonano ancora come quella prima volta, nel dicembre 1982 a Belfast, quando annunciarono: «Parla di noi e dellIrlanda, ma se non vi piacerà, non la suoneremo mai più». Piace ancora, eccome se piace, e laltra sera The Edge lha iniziata premendo bene il plettro sulle corde della chitarra, graffiandola quasi, mentre Larry Mullen martellava sul tom della batteria quel ritmo che ormai da solo chiama il boato del pubblico. Insomma, avrebbe potuto essere un «encore show», un concerto bis di quelli tipici delle tournèe che le superstar (si) concedono dopo successi strepitosi e lautamente ricompensati. Invece no. E probabilmente, dai è bello pensare così, Bono lha capito già uscendo dal palco con gli occhi al cielo. Dopo pochi minuti, lui e gli altri della band, tutti insieme come se non fossero trentadue anni e passa che girano a braccetto, erano sullelicottero che li ha portati allaeroporto Caselle. Poi lì sono saliti, con famiglie al seguito, su di un jet privato che gli esperti definiscono «brandizzato», ossia con lenorme logo del tour «U2 360°» stampato sulla fusoliera. Unimmagine, volendo, molto rock perché, dai Led Zeppelin ai Rolling Stones, un jet personalizzato accompagna spesso le transumanze aeree delle superstar quando sono davvero super. E laltra sera allo Stadio Olimpico, quarantacinquemila spettatori in una serata per fortuna non infradiciata dallafa, gli U2 sono stati super perché capaci di diventare talvolta anche mini nonostante un palco kolossal, umili nel presentare gli inediti che non sono granché, la ballata North Star in versione acustica e la tirata Glastonbury, piazzati in mezzo a una scaletta dal solito andamento sinusoidale che va da Until the end of the world fino alla tamarra Ill go crazy... (per di più in versione remix stile Pacha di Ibiza) distillando classici come Still havent found o Mysterious ways solo al momento giusto in un gioco che in One, guardacaso il primo bis, tocca davvero unintensità rara. E per forza lui, Bono, meno danzereccio del solito perché acciaccato ma vibrante come a ventanni, se lè portata via a fine concerto, salendo sul jet.
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