La logica vorrebbe che in una parete grande venisse appeso un quadro grande, mentre se l’opera in questione fosse piccola basterebbe anche uno spazio ridotto. Nell’estetica del contemporaneo, invece, non è così. Non è il lavoro al centro del palcoscenico, ma la sua scenografia: muri immensi ospitano interventi microscopici, perché il vuoto riempie e affascina, fa riflettere e levitare. Magari hai speso 8 euro di biglietto e ti rimane l’insoddisfazione, eppure la regola è questa, tira dritto e fai finta di aver capito.
I musei d’arte contemporanea oggi sono preziosi contenitori del poco o del niente. Più che preziosi, toccherebbe definirli costosi. Ad alto mantenimento come una bella donna, perversi stipendifici finanziati dal pubblico che pur pagando non ha diritto di parola. Guai a interferire sulla poetica del direttore, il quale, paradosso, invece di garantire il suo principale azionista non fa che lamentarsi della penuria di quattrini, minacciando dimissioni (mai divenute realtà) o la chiusura totale.
Ogni settimana esce una nuova polemica a proposito dei tagli alla cultura. Essendo governati da uno schieramento di centro-destra viene davvero facile la seguente equazione: «sono rozzi, quindi non gliene frega niente e non si fanno scrupoli», ma se per caso il problema riguarda un’amministrazione di sinistra subentra un certo pudore, un certo compatimento. E comunque è sempre colpa di Tremonti.
Ultimo in ordine di tempo, l’allarme lanciato da Roma. Dopo il rimpasto di giunta che ha visto la sostituzione di Umberto Croppi, assessore alla Cultura stranamente divenuto eroe bipartisan (che la notizia dell’adesione al Fli lo abbia beatificato anche negli ambienti di sinistra?), il sindaco Alemanno avrebbe annunciato un altro clamoroso giro di vite per circa 30 milioni di euro. Così fosse, si troverebbero in serie difficoltà le Scuderie del Quirinale, il Chiostro del Bramante e soprattutto il nuovo Macro di Odile Decq, che per sopravvivere dichiara un fabbisogno di 8 milioni l’anno.
Qui c’è qualcosa che non quadra, e per spiegarlo torniamo all’esempio della parete grande e della parete piccola. In Italia e non solo ci sono musei che espongono l’eccellenza dell’arte mondiale, dove la gente si mette in coda perché attratta dal patrimonio collezionistico o dal richiamo di una mostra temporanea di qualità eccezionale (non solo nell’antico e non solo da noi, basti pensare che al Musée d’Art Moderne di Parigi per la retrospettiva di Basquiat le prenotazioni sono da tempo sold out). Il contemporaneo più sperimentale, avanguardista e underground, viceversa, per esistere non ha bisogno di particolari risorse, anzi un eccesso di denaro spesso paralizza la vena creativa di artisti che si vedono catapultati senza meno nel mainstream solo perché espressione di una moda passeggera.
L’arte contemporanea, per risultare credibile, dovrebbe recuperare un po’ di spirito indie rock, per il quale una giovane band registra a proprie spese un demo, lo immette sul mercato e sfonda grazie al passa parola del pubblico, unico titolato a stabilirne la fortuna oppure no. Viceversa, l’arte è la sola espressione estetica a non sottoporsi al giudizio della gente, le basta l’approvazione di un ristretto consesso (meno siamo, meglio stiamo, diceva Renzo Arbore...) tanto si trova sempre qualcuno che paga.
Nel 1987, quando ancora non dilagava la moda delle archistar, due giovani architetti tedeschi vinsero il concorso per trasformare i resti di un’antica biblioteca in uno spazio per l’arte contemporanea. Portikus, questo il nome, consiste in una specie di hangar tutto bianco cui si giustappone la facciata originale. Idea semplice, vincente e poco costosa, da quello spazio off di Francoforte sono transitate alcune delle cose migliori degli ultimi vent’anni, riuscendo a mantenere la propria identità sperimentale e il proprio carattere «ruvido» senza gravare troppo sul bilancio pubblico.
In Italia, invece, è passata la legge del museo figo e nuovo di pacca, che dovrebbe attirare visitatori solo in quanto edificio, più o meno ciò che è accaduto al Guggenheim Bilbao di Frank Gehry: tutti ricordano il posto, nessuno fa caso a ciò che ci sta dentro. Dovendo spendere cifre iperboliche nella gestione dei loro gioielli, ai direttori resta ben poco per investire nella sperimentazione, anche perché rifuggono da quelle «mostre blockbuster» gradite al pubblico ma che, sono parole di uno di loro, «non danno posizionamento internazionale». Usando una finezza, questo atteggiamento significa «fare il frocio con il culo degli altri».
E allora, mio caro, è inutile che ti lamenti: se vuoi continuare a far sperimentazione d’élite devi imparare a risparmiare e a trovarti i soldi da solo.
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