Eccoli, i quarantenni in carriera della nostra pallacanestro: passano la settimana in tuta e la domenica in cravatta, al contrario dellitaliano medio, perché fanno gli allenatori. E, lavorando in provincia, ridisegnano la mappa del basket. Basta guardare la classifica della serie A, che oggi inaugura il girone di ritorno: seconda è Biella guidata da Luca Bechi, terza Montegranaro di Alessandro Finelli, sesta Pesaro affidata a Pino Sacripanti, tutta gente prossima agli «anta» o appena giuntavi. Ma il più bravo è Simone Pianigiani, classe 1969, studi in legge interrotti per amore del basket, «da ideare, studiare, trasmettere, anche perché, come giocatore, di me si sarebbero perse le tracce». Dal 2006 Pianigiani è lo skipper del Montepaschi Siena, nel giugno 2007 ha conquistato lo scudetto al suo primo anno da capo allenatore e da settembre, nel nuovo campionato, ha vinto 17 partite su 17. Una tirannia. Ma è pure lunico coach di A nato e cresciuto dove allena. «I tifosi mi fermano per strada, vorrei avere più tempo per loro: avverto la responsabilità ma chi fa il mio lavoro cerca emozioni, non le evita. Sono senese e della Lupa, la contrada di appartenenza è un segno eterno, basta ascoltare due bambini di qui quando si incontrano. Prima domanda: Come ti chiami?. Seconda: Di che contrada sei?».
Ma Pianigiani, ex-juventino convertito al Siena («Resto sul bianconero, no?»), è anche di unaltra contrada, la Mens Sana, la squadra di basket cittadina, con cui ha vinto 5 scudetti giovanili di fila e fatto da «vice» in serie A fin dal 1995. Cominciando accanto a Cesare Pancotto, che oggi guida Udine e domani troverà da avversario. Poi Frates, Ataman, Recalcati... «Una scuola mai uguale e mai banale: ho fatto il vice quando qui dovevamo salvarci ma pure lanno del primo scudetto, nel 2004, confrontando filosofie di lavoro diverse. E intanto allenavo le giovanili, che non sono un basket minore perché un tecnico di serie A, non meno di un istruttore dei ragazzi, deve continuare a insegnare e a curare i dettagli che fanno evolvere una squadra».
E i dettagli sono più delicati ed eccitanti plasmando questa Siena multietnica che mescola ebano e grano: gli assist di McIntyre, 175 cm di talento nero dal North Carolina, e latletismo del nigeriano Eze o di Sato, centrafricano pescato a Jesi; i canestri dei lituani Kaukenas (ora ko, tre mesi di stop) e Lavrinovic e lenergia del macedone Ilievski, preso dalla Virtus Bologna, rivale nella finale scudetto. Più che toscano si parla inglese. «È la lingua comune. Poi bisogna saper entrare in contatto con le persone, dimostrare sensibilità per le differenze. Abbiamo pochi italiani? Il vivaio Mens Sana li produce ma per giocare a questi livelli devono prima maturare altrove. Del resto, i grandi club europei sono vere multinazionali».
Nellattesa, il Montepaschi vince sempre. È una Formula 1 senza avversari? «Anche una F1 bisogna saperla guidare e poi la serie A non è scadente. È equilibrata, come dimostrano i successi di piccole realtà, forti della tranquillità della provincia, e le fatiche di certe big, che pagano limpegno europeo. Più che alle vittorie consecutive noi pensiamo ai playoff, dove tutto è rimesso in discussione anche se una sconfitta non cambia il valore di quello che hai costruito e bisogna imparare a valutare un intero lavoro, non solo una partita. Certo, lideale è concretizzare tutto con un trofeo...». E a Siena ci tengono, a concretizzare, a dar lustro a un club profondamente legato alla città; il Monte dei Paschi come sponsor, il sogno di far strada anche in Eurolega, 6 vinte e 4 perse il bilancio parziale della prima fase, «ma in Europa cè una fisicità spaventosa, squadre con budget superiori o con campionati meno impegnativi del nostro».
Nellattesa, chi sarà la prima italiana a fermare Siena? «Non lo so. So che siamo primi in tante classifiche di squadra ma che in nessun aspetto dipendiamo da un giocatore.
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