
Un americano senza la tivù in casa, che odia il fast food, che vive nella Bassa milanese, tra pioppi e fontanili. Uno che arriva ragazzino dagli Usa e in Italia mette le mani sulle tastiere e gli arrangiamenti di alcuni tra i più grandi della canzone italiana, da Fabrizio De André a Enzo Jannacci, da Antonella Ruggiero a Giorgio Gaber, da Renato Zero a Claudio Chieffo. Il suo nome è Mark Baldwin Harris e tra pochi giorni (l'8 agosto) compie 70 anni. Occasione ghiotta per rileggere la sua storia innestata nelle sette note italiane di qualità. E che mette uno zampino nel successo degli Articolo 31.
Mark buongiorno: ci vuole dire che ci faceva un ragazzo del Connecticut nell'Italia degli anni Sessanta?
"Il 1° luglio del 1967, mio padre è stato trasferito con la famiglia a Roma per lavoro. Avevo quasi dodici anni, dovevamo rimanere solo quattro anni, e non pensavo che l'Italia sarebbe diventata il mio paese d'adozione".
Casa Harris era una famiglia musicale?
"Assolutamente sì: papà si dilettava col swing su sax, chitarra, piano, armonica e bonghetti, mentre mamma suonava il clarinetto privilegiando Mozart. Sono il terzo di cinque figli e tutti suonavamo qualcosa. Ho iniziato le lezioni di pianoforte classico da piccolo, e già prima suonavo a orecchio le sigle tivù".
Insomma lei arriva a 12 anni nella Roma di fine anni 60: cosa ha trovato?
"I monumenti e la Nutella mi lasciavano a bocca aperta. L'unica vera delusione fu la tivù: due canali, bianco e nero, la mattina niente. Comunque, avevamo in casa un bel pianoforte Steinway a coda. Ci passavo tutte le ore, e così ho perso presto l'interesse nel piccolo schermo. Ed infatti da allora la televisione non mi attira e non ce l'ho in casa".
Come a un certo punto finisce a fare il pianista professionista con una delle band del rock italiano più creativo, Napoli Centrale?
"A Roma negli anni di liceo, ho fatto parte di una band che suonava in tutte le feste delle scuole straniere con un repertorio molto hippy, lunghissimi assoli su lentoni dei Traffic e dei Grateful Dead. Il nostro pubblico era sdraiato e strafatto, nessuno ballava".
Come si passa dalle jam session fricchettone al jazz rock?
"In quegli anni ascoltavamo tutto. I miei pianisti preferiti erano Thelonious Monk e Herbie Hancock, ascoltavo tanto jazz, ma anche tanto blues, rock, funk, per non parlare di folk e classica di tutte le epoche, incluse le avanguardie. La mia prima esperienza professionale fuori delle scuole è stata sempre a Roma con lo sperimentatore Alvin Curran".
E qui arriviamo alla nascita di Napoli Centrale...
"Un chitarrista amico di Alvin, Tony Ackerman, mi ha raccomandato ad Alan Sorrenti, che stava per registrare il suo terzo album nello studio di registrazione di Bobby Solo. Bobby nei weekend studiava yoga col cantautore texano Shawn Philips a Positano. E lì, a novembre del '74, il passaparola tra Bobby e il musicista inglese Tony Walmsley mi ha portato alla neonata formazione di James Senese in cui suonava Tony, il gruppo che sarebbe poi diventato Napoli Centrale. Avevo 19 anni. A marzo abbiamo fatto il disco da Bobby, e lunedì 2 giugno ho fatto il mio primo concerto a Milano: il mitico festival di Re Nudo al Parco Lambro, cinquant'anni fa! Un'esperienza bellissima: c'erano la PFM, Finardi, il Canzoniere del Lazio, e tanti altri. Unico ricordo bruttino: un gruppetto di autonomi che al grido la musica è di tutti voleva salire sul palco e giocare col mio piano. Pensavo, terrorizzato: questi mi distruggono la tastiera e sto ancora pagando le cambiali".
Dopo pochi anni, nel 1981, si trova a partecipare agli arrangiamenti del cosiddetto Indiano di Fabrizio De André e dentro ci canta anche una canzone, l'Ave Maria.
"Sono salito a Milano nel '78 per lavorare con Eugenio Finardi, poi con Edoardo Bennato. In un momento di pausa tra vari tour, sono stato chiamato a suonare per Fabrizio su Titti, il lato b di Una storia sbagliata. Così si è avviata una collaborazione stupenda".
Mai avuto qualche soggezione con De André?
"No, anzi, la mancanza di soggezione è stata la chiave di una storia artistica duratura. Quando l'ho conosciuto gli ho detto: ma sai che sei proprio bravo a cantare?. Lui mi ha guardato come fossi pazzo. E poi gli è venuto un sorriso da bambino e mi ha detto belìn, sono anni che nessuno me lo dice più. Ha capito che ero sincero".
Che rapporto c'era tra di voi?
"Generoso e affettuoso. E come cantava! Aveva uno swing nella voce come pochi altri cantautori. Glielo dissi e lui mi rispose belìn, sai perché? Io e Luigi Tenco ascoltavamo Nat King Cole da mattina a sera. Loro sentivano e seguivano Brel e Brassens per la costruzione dei brani, ma Nat per il canto".
E dopo De André sono arrivate tante altre collaborazioni, da Gaber a Ramazzotti alla Pausini. Quale è stata la più importante?
"Con Enzo Jannacci mi sono divertito di più! Dal primo disco insieme - Nuove registrazioni nel 1980 - è stata simpatia immediata e reciproca, lui era un motore artistico e mi dava totale libertà di suonare e arrangiare nei concerti".
Poi ci sono le collaborazioni con le tre grandi donne della canzone: Alice, Mia Martini e Antonella Ruggero.
"Tutte indimenticabili. Con Alice ho collaborato per Capo Nord insieme a Franco Battiato. Mentre con Mimì e Antonella le cose sono state più durature".
Con Mia Martini ha lavorato in due momenti differenti?
"L'ho conosciuta nel periodo in cui ha deciso di tornare a vivere in Calabria. Per festeggiare ha organizzato un supergruppo per un weekend al Ciak di Milano da cui sono usciti un album live, Miei Compagni di Viaggio, ed uno special televisivo. Mi ha dato carta bianca per alcuni degli arrangiamenti, impegnativi, eccentrici e bellissimi".
In quel periodo vi frequentavate parecchio anche fuori dal palco?
"Ci trovavamo spesso a casa sua a chiacchierare ed ascoltare Monk. Era l'83 ed era serafica perché si sentiva libera dall'ambiente discografico e stava per tornare a vivere in Calabria. Ma poi nel '92 la Mimì che conoscevo non c'era più: al suo posto vedevo una persona irritata e chiusa, come se tutti le lavorassero contro. Però lei è rimasta una delle tre voci che mi ammutoliscono".
In che senso?
"Ci sono tre cantanti italiani che mi hanno tolto il fiato e sono Mimì, De André e la Ruggiero. Mi incantavo ipnotizzato, e una manciata di volte ho smesso anche di suonare per un attimo dal trasporto".
Quando inizia a lavorare con la Ruggiero?
"Conoscevo dal 78 Roberto Colombo, poi produttore e marito di Antonella. Mi hanno chiamato verso il 2003 ed è durato a lungo, con in mezzo un disco live, Stralunato Recital (2006), davvero emozionante, più altri album belli e centinaia di concerti".
Parla di tutti i grandi, ma come è finito a fare Ohi Maria, brano per gli Articolo 31, formazione egregia, ma forse leggermente distante dai nomi che abbiamo citato fino ad ora?
"Ahahaha, è andata così: nei primi anni '80 ho arrangiato un paio di dischi per Lara Saint Paul. Il secondo, Bravo 2, era un progetto bizzarro, con canzoni famose anni '30 arrangiate come fossero per gli Earth, Wind and Fire. Finiti i missaggi, mi accorgo che l'album è troppo breve e allora con Lara improvvisiamo una cosetta riempitiva. Faccio il testo, arrangio al volo, richiamo i musicisti: totale lavorativo forse due orette scarse In quel tempo Fabrizio si lamentava spesso, a proposito dei miei lavoretti pop in sala d'incisione: ehi belìn diceva - cosa perdi tempo dietro a quelle belinate, vieni qui da me, si chiacchiera e si beve un po'. E io ridevo, certo, dammi tu un mensile".
E quindi come si arriva agli Articolo 31?
"Ho collaborato a lungo negli ultimi anni 80 con il Re dei jingle pubblicitari, Franco Godi, che poi ha prodotto gli Articolo 31. Sono stati loro a voler risuscitare il vecchio brano. A mia sorpresa, nell'estate del 94 mentre ero sul lungomare di Rimini con Mimì, di colpo dagli altoparlanti di uno dei chioschi sulla spiaggia sento questo brano strascicato che intona ohi Maria, ohi Maria il brano era diventato il tormentone dell'estate! Un anno dopo mi arriva un bonifico SIAE da 12 milioni per i diritti d'autore".
E cosa hai fatto di fronte all'inatteso successo? Ha chiamato JAx?
"No, De André: Faber, ti ricordi quel lavoro di Lara Saint Paul?, e lui, sì, sì, una vera merda. Ed io, in un clima di pura goliardia tra amici: Sarà, ma mi ha fatto guadagnare più di tutti i dischi fatti con te messi insieme. Ho spiegato, e dopo una pausa mi ha sussurrato: belìn, allora bene, ma rimane una belinata, e giù risate".
In questa storia arriva ad un certo punto Claudio Chieffo, una relazione artistica che va dal 1986 ai primi anni 90. Da un lato un pianista anarchico, dall'altro un cantautore dalla forte impronta spirituale. Come vi siete trovati?
"Innanzitutto tramite la musica, perché lui scriveva davvero cose interessanti, aveva un senso melodico molto particolare. Da autodidatta, trovava le soluzioni musicali col cuore e con l'istinto, che fortunatamente aveva sanissimi. E poi umanamente era una persona stupenda, che legava con tutti".
Passano gli anni: siamo nell'epoca di Spotify. Cosa pensa della musica italiana odierna?
"Onestamente non lo so. Non vedo la tivù, non ascolto la radio ed evito festival, talent e concorsi".
Ma proprio nulla di nulla? Vive lontano dall'oggi delle sette note?
"Ogni tanto mi chiamano per una qualche collaborazione al volo e mi diverto. L'anno scorso ho fatto un duetto con Big Mama, Veleno. Ma oltre a questi incontri saltuari, non seguo con molta attenzione la scena giovanile pop. Ascolto più volentieri ragazzi come il chitarrista Matteo Mancuso. La musica che circola mi sembra troppo spesso di maniera e banalotta. Infantilizzante, ma priva di quel senso di meraviglia che hanno i bambini".
Qualche progetto personale?
"Concerti di piano solo. Didattica. Sto anche collaborando allo sviluppo di software musicale, infinity.audio".
Le piace stare davanti al pubblico solo in compagnia del suo pianoforte?
"Assolutamente sì. Poter condividere quello che sto sognando e quello che sto sentendo nel momento, con vera spontaneità e sincerità, è la cosa più bella. Si crea un senso di intimità che è l'opposto dello scopo dei spettacoli con scalette fisse e cambi di costume e scena pre-programmati.
Certo, non sempre si riesce in pieno, ma, comunque, un bravo improvvisatore è come un bravo pescatore; puoi stare sicuro che ti offrirà qualcosa di fresco e gustoso, mai i bastoncini surgelati industriali. Attenti a scegliere musica sana e nutriente e buon appetito!".