Il Fenomeno Transgenerazionale piace ai figli, ai genitori, ainonni,aibisnonni. Quando si mette al pianoforte e suona L’orologio degli dei, Aria, Panic, le musiche che sono filtrate da quel rovo di ricci in cuihanascostola testa, gli «alleviani» - è così che si chiamano fra di loro - trattengono il respiro, molti piangono. Qualcosa d’incomprensibile, mai visto prima, a parte Mozart. Lo fermano per strada, gli strappano autografi, lo accarezzano, lo baciano. Giovanni Allevi non prova neppure a sottrarsi, anzi si dona come un agnello sacrificale. Ho visto una signora dal piglio severo, sedicente seguace di uno sciamano della Mongolia, afferrargli con forza le mani per infondergli le energie cosmiche del Tudup emneer, che non so cosa sia ma deve far benone, perché alla fine gli ha urlato: «Non avere paura, Giovanni! Non morirai!».
In un liceo di Ascoli Piceno, la sua città natale, una studentessa gli ha fatto firmare l’etichetta di una bottiglia vuota su cui aveva scritto: «Contiene aria che è stata attraversata dalle note di Giovanni Allevi». A un concerto una ragazzina l’ha costretto a schioccarle un bacio sulla guancia, poi ha applicato sulla pelle un pezzo di nastro adesivo, l’ha strappato e l’ha esibito alla folla adorante: «Ho il Dna di Giovanni Allevi!».
Persino i 12 apostoli dell’omonimo premio letterario veronese ispirato da Orio Vergani, consegnato pochi giorni fa a Giovanni Minoli per il libro Opus Dei, si sono trovati d’accordo - dopo 30 edizioni che avevano iscritto nell’albo d’oro nomi come Gianni Brera, Egisto Corradi, Giovanni Mosca, Claudio Magris, Enzo Bettiza, Paolo Mieli - nell’istituire un «Riconoscimento all’arte» di questo trentanovenne. Come abbia fatto a conquistare i 12 giurati refrattari alle mode, fra i quali ieri spiccavano Indro Montanelli, Enzo Biagi e Cesare Marchi, oggi Ferruccio De Bortoli, Sergio Romano e Vittorio Zucconi, rimane un mistero.
La trappola emotiva dev’essere ben congegnata se c’è cascato financo Giorgio Napolitano, classe 1925: al Teatro delle Muse di Ancona, dopo aver ascoltato l’Inno delle Marche composto da Allevi, il capo dello Stato ha infranto il cerimoniale ed è scattato in piedi per andare a stringere la mano al maestro,«e io per allungargli la mia mi sono dovuto inginocchiare sul palco davanti al presidente».
Ma non fu sempre così per questo musicista, diplomato in pianoforte e in composizione col massimo dei voti e laureato con lode in filosofia, che si definisce «cespuglio pensatore». La memoria torna al 9 aprile 1991, giorno del suo ventiduesimo compleanno: «Napoli, primo concerto lontano da casa. Trasferta in treno, da solo. Smoking comprato per l’occasione. Entro in sala e conto: cinque persone. Una signora del pubblico, dolcissima, cerca di mettermi a mio agio: “Se crede, può anche non suonare, fa lo stesso”. Riesco solo a balbettare: ma no, già che ci siamo... Alla battuta 22 della Sarabanda di Bach entra una coppia elegantissima. Lui dicea lei: “Ma non c’è nessuno!”. Girano i tacchi e se ne vanno, sento il rumore della porta a vetri che sbatte. Vorrei morire. Mi aggrappo alle note. Alla fine parte l’applauso. Sono cinque ma è fortissimo, non finisce più. Cinque: il mio pubblico. Provo una commozione violenta. Me li bacio uno per uno con lo sguardo. Ilconcerto era gratis. Avevo speso tutti i soldi per il viaggio. Passai la notte in smoking nella sala d’aspetto della stazione, fra barboni e prostitute».
Quindici anni dopo, ancora a Napoli, AuditoriumScarlatti, prima tappa italiana del No concept tour. Neppure un biglietto invenduto. Alla fine del concerto una signora si fa largo tra centinaia di ragazzi: «Maestro, voi siete sempre così bravo! Solo che l’altra volta eravamo in cinque a sentirvi...». Senza quei cinque non sarebbe mai arrivato ai 50.000 di piazza del Duomo a Milano. Senza quei cinque quest’estate non avrebbe registrato 25 tutto esaurito nelle città italiane dove ha presentato Evolution, il suo sesto Cd. Senza quei cinque non avrebbegià fatto quattro tournée in Cina e nell’agosto scorso non lo avrebbero chiamato nella Città Proibita di Pechino a tenere il concerto delle Olimpiadi accompagnato dalla China philharmonic orchestra.
Senza quei cinque
non avrebbe già venduto 70.000 copie di Evolution,
e prim’ancora 150.000 di Joy, 90.000 di
No concept, 80.000 di Allevi live, record impensabili
per un pianista. Senza
quei cinque non avrebbe
suonato per ben tre volte, solo
posti in piedi, al Blue Note
di New York dov’erano di casa
Duke Ellington, Ella Fitzgerald,
Mile Davis. Senza
quei cinque non sarebbe in
partenza per il Giappone,
dovesi esibirà il 4 novembre
a Nagoya, il 6 a Yokohama e
il 9 a Tokyo. Senza quei cinque
Allevi non avrebbe mai
scritto La musica in testa, 9
edizioni, 60.000 copie vendute,
e In viaggio con la Strega,
che uscirà sempre da Rizzoli
il 26 novembre.
Luca Goldoni dice che lei suona come parla e
parla come suona.
«Ha ragione. C’è un istinto musicale anche nel
mio linguaggio. Sembra semplicità, invece è
complessità risolta. La sublimazione dell’imperfetto.
Basta con la perfezione! Non se ne
può più».
Non ha paura che questo successo travolgente
finisca?
«È la mia ansia perenne, il mio lato oscuro.
Quattro giorni la settimana mi chiudo in me
stesso e non penso ad altro. Io so soltanto comporre
e suonare. Se il pubblico mi abbandona,
non ho poltrone a cui aggrapparmi, perché mi
sono sempre tenuto lontano da logiche di potere.
E di gente in giro che spera nella mia fine
ce n’è parecchia, non creda».
Di chi sta parlando?
«Sul mondo accademico ho avuto un impatto
devastante. Come l’Islam sulla civiltà occidentale.
Mi considerano il risultato di un’esplosione
di follia collettiva. Per loro sono un finto
umile che s’approfitta dell’ignoranza delle platee».
Faccia qualche nome.
«Enrico Girardi del Corriere della Sera sostiene
che rappresento il peggio della musica italiana
d’oggi, che sono un bluff come compositore
e un pessimo pianista. Luca Francesconi,
direttore del settore musica della Biennale, ha
dichiarato che la mia è finta musica classica,
che arrangio il già noto solo per vendere».
Invece che musica è?
«Musica classica contemporanea. Il fatto che
sia molto amata non contrasta con le sue origini
cólte. Non ho mai usato la contaminazione,
non ho arrangiato Bach per la sigla di Quark,
nei mie brani non ci sono note di batteria, bassi
elettrici o chitarre distorte. Evolution l’ho
realizzato con un’orchestra sinfonica, i Virtuosi
italiani».
Fedele alle origini familiari.
«Sì, mio padre Nazareno è clarinettista, mia madre
Fiorella cantante lirica, ma entrambi hanno
dovuto adattarsi a fare gli insegnanti. È il
dramma di migliaia di musicisti. I miei genitori
non volevano che suonassi. A 4 anni ho trovato
la chiave del pianoforte di casa, un Beckstein,
e a 6 ho cominciato ad ascoltare in loro
assenza la Turandot, tutti i pomeriggi».
Come ha esordito?
«Nel 1991 sono partito per la naia: Car aOrvieto,
poi nella banda dell’esercito alla Cecchignola di Roma.
Mi hanno messo alla maggiorità.
Davo da mangiare a Bemolle, il gatto del
comandante della caserma, e pulivo l’ufficio
del direttore della banda. Lì dentro c’era un
pianoforte. Il tenente colonnello s’accorse
che lo suonavo di nascosto fra una spolverata
e l’altra ed ebbe l’idea un po’ folle di farmi
diventare il solista della banda. Andai in tournée
nei teatri per i restanti sei mesi della leva.
Suonavo la Rapsodia in blu di Gershwin e il
Concerto di Varsavia di Addinsell».
E poi i primi successi con Jovanotti.
«Secondo lui dovevo sentirmi come un calciatore
convocato nella nazionale. Quando decisi
di andarmene per la mia strada, ci rimase
male».
Più sentito?
«Mi manda qualche Sms. Solo saluti. Congratulazioni mai».
Ha sempre avuto i capelli come l’omino dei
lampostyl Presbitero?
«No, li ho sempre avuti cortissimi. Me li sono
fatti crescere dal giorno del trasferimento a Milano,
dieci anni fa».
Usa qualcosa per incrementare la matassa?
«Oddio, ma devo proprio dirlo? Non è pubblicità?».
Che c’entra? Allora anche dire che lei ha inciso
sei Cd e scritto due libri è pubblicità.
«Guardi, ho provato di tutto. Alla fine mi sono
fermato al balsamo Hydra-ricci della Garnier.
Rende il riccio definito».
Perché si stabilì a Milano?
«Volevo diventare pianista e
compositore. Mangiare era
tempo sottratto allo studio,
quindi per un anno ho versato una scatoletta
di tonno sopra gli
spaghetti appena scolati,
ilpiatto più rapido, nient’altro,
un fatto di pura sopravvivenza.
Mi mantenevo
con le supplenze di educazionemusicale
o come insegnante
di sostegno degli
alunni dislessici nelle scuole
dell’hinterland, Barona,
Parco Lambro, Linate. Distribuivo
volantini sui Navigli.
E poi facevo il cameriere nei
catering».
Per avvicinare Riccardo Muti.
«Anche. Accadde il 7 dicembre del 2000, alla
cena di gala della Scala. Mi feci assegnare al
tavolo dove il maestro sedeva con la famiglia e
altri ospiti.Volevo consegnargli 13 dita, ilmio
Cd, ma avevo il problema di dove nasconderlo.
Ginevra mi prestò il suo grembiule, che aveva
una bella tasca sul davanti. Servivo i vini in
guanti bianchi.Il cuore mi scoppiava. Alla fine
presi coraggio e gli porsi il disco. Muti ne fu
più divertito che sorpreso. Si alzò in piedi, mi
strinse la mano. “Pensate, è un pianista, ha
inciso questo Cd e s’è travestito da cameriere
per incontrarmi!”, si rivolse ai commensali.
Poi a me: “Le risponderò sicuramente”. Quando
più tardi tornai per sparecchiare, trovai il
disco abbandonato sulla poltroncina».
Che tristezza.
«E invece l’anno scorso chi ti vedo in prima fila
ad ascoltarmi al Teatro Sociale di Piangipane,
a Ravenna? Riccardo Muti! Abbiamo mangiato
insieme i cappelletti. Alla fine mi ha chiesto di
fargli avere le mie partiture d’orchestra. “Stavolta
non le dimenticheremo sulla sedia”, mi
ha sorriso la moglie Cristina».
Gliele ha spedite?
«Non ancora. La riverenza mi blocca. Ci ho
messo otto anni a capirlo: nella vita artistica
non sono ammessi salti. La strada resta quella
tracciata dal direttore del conservatorio Giuseppe
Verdi di Milano, che mi sibilò: “Se fossi
uno dei miei predecessori, come Ildebrando
Pizzetti, la caccerei!”. Mi bocciava alle audizioni
libere, salvo poi ricevermi in ufficio per
esternarmi la sua ammirazione: “Lei oggi ha
suonato qualcosa di... di... di geniale, ecco, a
metà strada fra la musica classica e il jazz”. Come
ho osato saltare la trafila tradizionale? Prima
vinci il premio Busoni, poi entri nel giro
delle agenzie che ti ordinano che cosa devi
eseguire, infine ilpubblicovanei teatriasentire
quello che ha vinto il Busoni. Il guaio è che
l’anno dopo il premio lo assegnano a un altro e
tu sei tagliato fuori. Ho preferito suonare la
musica composta da me. Chopin, il mio idolo,
Ravel, Liszt, Debussy facevano lo stesso».
Però non pretendevano una torta al cioccolato
nel contratto...
«Devo sempre mangiarne almeno una fetta in
camerino prima di andare sul palco. È una coccola
per vincere la paura».
Non è il suo unico tic.
«No, è vero. Riservo un giorno della settimana
ad attività speciali, tipo telefonare senza motivo
a nominativi presi a caso dalla rubrica del
cellulare, persone che rimangono sbalordite
perché non ho nulla di pratico da dirgli. Oppure
annuso tutto ciò che incontro e alla sera stilo
una classifica dell’olfatto».
Ha registrato «Joy» senza averlo mai suonato
prima, se non nella sua testa. Indro Montanelli
faceva lo stesso con i propri articoli: se li
recitava mentalmente passeggiando nei giardini
di via Palestro, poi andava al giornale e li
metteva su carta.
«Quando la musica mi assale, non vedo più le
persone, non riconosco le strade diMilano».
Non teme di sprofondare nella pazzia, come il
suo collega David Helfgott, protagonista del
film «Shine»?
«Il mio amico David è venuto l’anno scorso in
Italia. Una delle prime cose che ha chiesto è
stata: “Dov’è Allevi?”. Sono andato a sentirlo al
Blue Note diMilano. Alla fine del concerto mi
ha chiamato sul palco e mi ha abbracciato.
Non si staccava più. “Your music, your music”,
la tua musica, continuava a ripetere. Guardandolo,
ho visto la fine che farò».
Soffre ancora di attacchi di panico?
«Sì, ma la loro intensità puntiforme è diminuita.
Adesso durano un intero pomeriggio e non
ho bisogno dell’ambulanza, la cui sirena mi ha
ispirato il brano Panic nella corsa verso l’ospedale.
Li considero forze ataviche, cosmiche,
chemi trapassano. Non li respingo più. Li accetto
e li benedico. Arrivano quando la ragione
pretende di capire chi sono, cosa sto facendo,
dove sto andando».
E la sua musica? Quella da dove arriva, se l’è
mai chiesto?
«È un mistero, un’entità immateriale che entra
nelle nostre vite. Per umiltà non voglio pensare
che arrivi da Dio. Non mi
considero né un tramite con
la divinità né un ideale di
comportamento. Non capisco
niente, non sono niente».
Panico da Borsa mai?
«Non so neppure quanti soldi
ho sul conto corrente. Vivo
in un bilocale sui Navigli,
non ho l’auto, mi piace usare
metrò e tram. Mi sento vicino all’umanità
dispersa e gettata
nell’esistenza di cui parla
Heidegger».
Quanto denaro ha con sé?
(Fruga nelle taschee tira fuori un brandello
di menù, sul
quale ha scritto a matita «Dodici apostoli» e
un pentagramma). «Ho solo questo, un appunto
che ho annotato ieri sera durante la cena in mio onore.
È un procedimento matematico per
trasformare le parole in melodia. A ogni
lettera corrisponde una nota. Lo usava anche
Bach».
Paga tanto di assicurazione per le mani?
«Il mio staff ha provato a telefonare ai Lloyd’s per sottoscrivere una polizza, ma da Londra hanno risposto che farei bene ad assicurarmi il cervello».
A chi deve di più?
«A mia moglie Nada. Ha creduto in me. Èdifficile trovare una persona che crede in ciò che fai».
(426. Continua)
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