Piazza della Loggia, l’ultima strage impunita

Una settimana chiusi in camera di consiglio, giudici e giurati, isolati dal mondo, a cercare di orientarsi in un processo gigantesco su un massacro di trentasei anni fa. Quando ieri pomeriggio la Corte d’assise di Brescia riemerge dalla clausura, bastano le prime parole del dispositivo letto da presidente Enrico Fischetti per capire come è andata a finire. «Visto l’articolo 530 secondo comma....». Tutti assolti per insufficienza di prove. Vuol dire che non ci sono elementi sufficienti a dare un nome e un volto agli autori dell’unica strage italiana per cui la giustizia cercava ancora una spiegazione. La bomba che in piazza della Loggia, il 28 maggio 1974, esplose al termine di una manifestazione sindacale uccidendo otto persone, non fu opera dei neofascisti di Ordine Nuovo: così, almeno, dice la sentenza di ieri. Nè ci sono prove sufficienti delle collusioni con gli apparati dello Stato - carabinieri e servizi segreti, più precisamente - di cui la Procura bresciana nella sua requisitoria, al termine di due anni di udienze, aveva affermato il coinvolgimento.
Vengono assolti tutti gli imputati per cui i pm Di Martino e Piantoni avevano chiesto la condanna all’ergastolo: il medico Carlo Maria Maggi, leader di Ordine Nuovo in Veneto, il suo ex camerata Delfo Zorzi, l’informatore del Sid Maurizio Tramonte, il generale dei carabinieri Francesco Delfino. Assolto anche Pino Rauti, già senatore del Movimento Sociale Italiano e fondatore di Ordine Nuovo: ma per lui anche la Procura aveva chiesto il proscioglimento per insufficienza di prove.
Si chiude così il terzo e ultimo capitolo della «rilettura» che a partire dagli anni Novanta la magistratura ha avviato di altrettante stragi dell’epoca della «strategia della tensione: piazza Fontana (12 dicembre 1969), via Fatebenefratelli (17 maggio 1973), e appunto piazza della Loggia. Seguendo un filo conduttore in larga parte comune, e costituito prevalentemente dalle dichiarazioni di alcuni «pentiti», le Procure di Milano e di Brescia sono tornate a scavare sui retroscena di quegli attentati. Tema comune: la connivenza tra elementi della destra radicale e «pezzi» dello Stato, uniti - secondo il racconto dei “pentiti” - in nome della lotta al «pericolo rosso».
Nomi di pentiti e nomi di imputati ricorrevano in tutte e tre le inchieste. Già i processi bis per piazza Fontana e via Fatebenefratelli erano finiti con un nulla di fatto, con sentenze definitive che assolvevano tutti gli imputati, ritenendo inattendibili i pentiti, imprecisi i loro ricordi, impossibili da trovare - dopo tanti anni - i riscontri alle loro accuse. A uscire demolita da quelle sentenze era stata in particolare la testimonianza di Carlo Digilio, ex ordinovista, specialista in esplosivi, detto «zio Otto», divenuto accusatore dei suoi ex compagni di fede.
Che anche il processo-gemello per la strage di Brescia sancisse l’inattendibilità di Digilio era possibile.

Ma la pubblica accusa e i familiari delle vittime puntavano molto su un elemento in più: le ammissioni di Tramonte, militante nero e informatore dei servizi segreti con il nome di “Tritone”, che aveva indicato nel generale Delfino (all’epoca comandante del nucleo operativo dell’Arma a Brescia) l’uomo di collegamento tra lo Stato e gli stragisti. Ma neanche “Tritone”, evidentemente, ha convinto la giuria.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica