Milano - È successo, succede, succederà ancora che una grande persona si nasconda proprio dentro a un corpo piccolo, minuto. Quasi una compensazione concessa da Madre Natura a chi sarebbe destinato dal sistema metrico a guardare gli altri unicamente dal basso. Mentre loro, i veri grandi, dall’alto di quell’invisibile «statura» fatta di volta in volta di intelligenza o saggezza, di bontà o genialità - a volte impastate tutte insieme - quegli spilungoni fatti di sola carne e ossa non li vedono nemmeno. Rispetto a loro sembrano patetici puntini, «papaveri alti alti» che si illudono di svettare, in qualche posto laggiù. Di persone così, uomini e donne, in luoghi e campi diversi, è fortunatamente costellata la storia: da Gandhi a Madre Teresa, da Luigi Einaudi a Edith Piaf. Ovvero, nell’ordine: una Mente, un Cuore, un Cervello, una Voce. Grandi, quindi degni della maiuscola.
Piccola, quasi una fragile miniatura, ma in realtà un gigante di volontà, forza e immenso amore - tutti inossidabili - è stata nell’arco della sua lunga esistenza terrena anche Rosa (per amici e familiari Rosella) Berlusconi, nata 97 anni fa a Milano, in via del Carroccio 2, vicino a piazza Lega Lombarda. E, colmo della coincidenza «padana», facendo addirittura di cognome Bossi. Sì, proprio come l’Umberto, il senatùr di Gemonio, contro cui lei, la First Mamma d’Italia, lanciò nel ’95 i suoi pubblici e vibrati strali per condannare il ribaltone politico che aveva disarcionato il Cavaliere. «Quel Bossi, se potessi parlargli a quattr’occhi... No, se fa minga inscì, non si fa così. Perché ha tradito Silvio?», si era sfogata. Anche se poi, donna di cuore, anni dopo lo aveva perdonato. «Ora la malattia lo ha migliorato e lui è tra quelli che vogliono più bene a Silvio. Sperem, speriamo!».
Già, il cuore... Cuore di mamma, senz’altro e innanzitutto, quello della signora Rosella. Sempre in ambasce - «mi son venuti gli occhi gonfi, a forza di piangere», ripeteva - per il continuo accanimento politico e giudiziario contro i figli Silvio e Paolo, rimasti ancora dei fieu ai suoi occhi, ma cresciuti forse troppo a quelli di qualcuno. «Quando vedo in televisione Borrelli esco dalla grazia di Dio - sbottò un giorno incenerendo con lo sguardo chi aveva soltanto osato nominarle il procuratore capo di Milano -. Se potessi fargli chissà che cosa, glielo farei».
Il suo Silvio, lei l’aveva orgogliosamente visto crescere in fretta come imprenditore rivoluzionario nell’edilizia - «ma che anni abbiamo passato, agli inizi, io e mio marito, con la casa piena di cambiali!» - e poi esplodere con le televisioni. Poi, la decisione di scendere in politica. E lei, la mamma, dopo aver cercato fino all’ultimo di dissuaderlo, alla fine lo aveva abbracciato, dandogli il suo viatico: «Se senti il dovere di farlo - aveva sentenziato - allora devi trovare il coraggio di farlo».
Cuore anche di nonna, la Rosella, tenera chioccia e al tempo stesso solido ancoraggio per dodici nipoti, ovvero i cinque figli di Silvio, i quattro di Paolo e i tre di Maria Antonietta. Dodici, «tutti bellissimi, tutti intelligentissimi», ripeteva sempre, gongolando. Dodici a circondarla d’affetto nelle riunioni di famiglia, ad Arcore, soprattutto in occasione delle grandi feste comandate, Natale su tutte.
Cuore ovviamente di moglie, quello della signora Rosa, che ha pulsato senza mai perdere un colpo per tutti i 54 anni di matrimonio - bellissimo e dolcissimo - con il suo Luigi, per lei «il Gino», scomparso nel 1989. Cuore che ha continuato a pulsare per lui anche dopo, con la rituale «buonanotte» serale e l’affettuosa carezza alla grande tela a olio che campeggia su una parete della casa in zona Lorenteggio: un quadro dove sono ritratti com’erano stati per tutta la vita - insieme, fianco a fianco - lei e il suo Gino. Il Gino «che ritornava a casa ogni sera con il sole in tasca». Il Gino che si era innamorato e che l’aveva fatta innamorare - quasi una scena da Miracolo a Milano, da film in bianco e nero, era la fine degli anni Venti! - a una fermata del tram di piazza Cordusio. Il Gino che aveva concesso a quella tusa dagli occhi verdi il tempo per tener fede all’impegno di sorella maggiore - vedere prima sistemati i fratelli minori - preso con i genitori scomparsi troppo presto. E lui, così, l’aveva rispettata per otto lunghi anni di castissimo fidanzamento. Un «fioretto» che Silvio, dissacrante, aveva trasformato in battuta di successo alle feste di famiglia, facendo puntualmente arrossire la mamma. «Sapete perché io sono venuto fuori così bene? Perché dopo otto anni di attesa, papà aveva dato il meglio di se stesso!».
Cuore infine tout court, quello della Rosa, che oltre a ripetere sempre, a chi glielo chiedeva, che la cosa più importante della vita «è amare ed essere amati», e che oltre ad aver tirato su i figli con la regola di pensare anzitutto agli altri, a chi è meno fortunato, aveva sempre fatto precedere a queste sue parole i fatti. Riempiendo le prime con i secondi, perché a ciciarà, a chiacchierare, sono bravi tutti. Così per anni, ogni domenica, nella loro casa «della felicità», la sua preferita tra tutte quelle dove avevano abitato, quella di viale Zara 58, là dove Milano era più sua, più popolare, arrivava a pranzo la Regina, una conoscente del marito, anziana ospite della Baggina, il più celebre degli ospizi milanesi. Come aveva raccontato lei tempo fa in una gustosa intervista concessa al nostro Stefano Lorenzetto, la Regina «andava matta per il lesso, mentre i ragazzi non lo sopportavano. Eppure, per solidarietà, lo mangiavano».
Appunto, era proprio quella la «sua» regola: se fai del bene, non farlo mai pesare, ma fallo sempre con il sorriso sulle labbra. «Una domenica suonò alla porta un’altra vecchietta: “Mi manda la sciura Regina. L'è morta. Mi ha detto di venire al posto suo” - era proseguito il racconto -. E da quel giorno abbiamo tenuto a tavola lei, per anni. Per fortuna non era fissata con il bollito».
Le privazioni, del resto, Rosa aveva imparato a conoscerle molto presto. Rimasta orfana di mamma a 15 anni e poco tempo dopo anche del padre, si era presa sulle spalle i due fratelli più piccoli. Giornate durissime, interminabili: il lavoro come segretaria di giorno e poi la scuola serale di dattilografia e stenografia. E ancora la casa da tener pulita, più i pasti da mettere in tavola per i fratellini. La notte? Prima di chiudere gli occhi sferruzzava cose di lana per arrotondare il magrissimo bilancio. Così tutti i giorni, per anni, su e giù per Milano, spesso a piedi, rinunciando al tram per risparmiare anche il centesimo. «Quasi tutti i giorni andavo a piangere davanti alla Madonna che c’è in Duomo, accanto all’altare maggiore», aveva raccontato qualche anno fa in un’intervista. Confessando: «Ero disperata, saltavo i pasti, ma non ho mai chiesto una lira a nessuno».
Poi nella sua vita, insieme a un buon posto come segretaria alla Pirelli - 14 mensilità e i pacchi regalo a Natale - era entrato il Gino: occhi azzurri, capelli castano biondi con l’onda, elegante, insomma quello che sotto la Madonnina si usa definire un bel bagaj.
Lei lo notò, lui la notò. Ed entrambi scoprirono quanto possa essere bello, oltre che strano, innamorarsi a Milano. Là dove i tramonti saranno anche un po’ pallidi, ma dove perfino la fermata del tram numero 4 può diventare un luogo romantico. Passeranno così, occhi negli occhi, mano nella mano - allora usava - quegli otto anni in attesa delle nozze. Fino al grande giorno, 5 ottobre del ’35, seguito da un viaggio di nozze da tenera e povera Italietta: in treno, con tappe a Firenze, Roma e Napoli.
Non faranno però in tempo a veder andare a scuola il primogenito, Silvio, nato il 29 settembre dell’anno dopo, che il loro fragile benessere, come quello di tutti gli italiani, verrà sconvolto dalla seconda guerra mondiale. Il Gino riparerà in Svizzera mentre Rosa, incinta di Antonietta e con Silvio per mano, sfollerà in campagna, a casa di parenti, a Oltrona San Mamette, nel Comasco. Per non perdere il lavoro, l’unica risorsa, lei si farà a piedi tre chilometri tutte le mattine per prendere a Fino Mornasco il treno diretto a Milano. E lo stesso percorso la sera, dalla stazione di Fino Mornasco a casa. Così per tre anni, con il sole o la neve, tutti i giorni. Compreso quello in cui Rosa rischiò la vita per davvero. Per incoscienza giovanile o forse soltanto per obbedire a quel suo immenso cuore. Un nazista, armato, era salito sul treno per fare scendere una donna ebrea. Rosa, incinta, gli si parò davanti, la sua pancia di otto mesi contro la canna del mitra.
«Sparami pure - gridò in faccia al crucco che aveva iniziato a sbraitare come soltanto i crucchi sanno fare - però prima guarda le facce intorno a te: da questo vagone non scenderai vivo nemmeno tu».Anche cuor di leone, la Rosella, benedetta donna!
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