Era il 12 agosto 2000 quando il sommergibile russo Kursk, squarciato da una misteriosa esplosione, seppellì a 108 metri nelle gelide acque del Mare di Barents il suo equipaggio di 118 uomini. Fioccarono sul governo di Mosca, e sul presidente Putin, accuse di inerzia e trascuratezza: erano passati giorni preziosi prima che le autorità rinunciassero al piano di occultare lincidente e chiedessero soccorso tecnologico alle marine occidentali.
Se ci fosse stato lo zar Pietro il Grande - recriminavano i nostalgici, i tradizionalisti - si sarebbe epicamente gettato di persona nelle acque, per salvare i suoi marinai, come aveva fatto più volte dal ponte delle sue navi. Senza contare che se ci fosse stato al timone della flotta Pietro I Alekseevic (Mosca, 1672 - San Pietroburgo, 1725), il naviglio impavesato con le bandiere recanti lo stemma di SantAndrea non avrebbe sofferto un tale degrado: reattori malconci, comunicazioni incerte, alti comandi improvvisati e tentennanti. Ironia della sorte storica, le successive indagini misero in chiaro che a sparare il colpo fatale era stato lincrociatore lanciamissili pesante «Pietro il Grande», unità ammiraglia e orgoglio della flotta russa. Una polveriera nucleare ambulante, secondo le informazioni occidentali e i reclami ambientalisti: il gigante da battaglia ha un cuore atomico di sicurezza assai precaria.
Pietro, invece, umanizzava le sue navi. Ne teneva, una per una, un diario: data di nascita, tappe di armamento, imprese nautiche. Il suo primo battello era stato insignito del titolo di «nonno della flotta». Dava alle unità nomi di parenti e di amici. La sua tabacchiera era a forma di vascello. Il tutto dal nulla. La Russia che aveva ereditato da suo padre, lo zar Alessio, oltre a essere in ritardo su tutti i fronti rispetto a unEuropa che galoppava verso i «lumi» del 700, quanto a marina era allanno zero. Pietro comprese che per aprire una finestra verso il continente in evoluzione e verso la modernità era indispensabile presentarsi sul mare con credenziali importanti. Non gli bastò far sorgere dal nulla delle ghiacciate paludi baltiche una nuova capitale, San Pietroburgo (1703), baricentro spostato a Ovest, ma impostò anche la potenza navale russa al punto da costringere gli inglesi a emanare norme - spesso disattese - per impedire che carpentieri e mastri dascia britannici portassero allestero le loro competenze (ma Pietro strapagava e coccolava i progettisti stranieri) e i suoi avversari del Nord (soprattutto la Svezia) a percepire la reale minaccia allequilibrio di forze in Europa.
Lentusiastico rapporto tra Pietro e il mare è uno dei tanti punti di questa personalità complessa e controversa toccati dalla storica inglese Lindsey Hughes nel suo Pietro il Grande, documentatissimo ritratto delluomo che, a denti stretti, anche la cultura ideologica sovietica accettò come figura di eroe nazionalpopolare. Quando, per decreto di Lenin, il patrimonio monumentale della Russia pre-bolscevica fu ripulito delle effigi zariste «non più in sintonia con lo spirito dei tempi», il monumento equestre in bronzo di Pietro il Grande, di Etienne Falconet, fu risparmiato. La Hughes dedica pagine illuminanti alla lettura delliconografia (statue, dipinti, medaglioni, monumenti) consacrata al personaggio, che conserva tuttora intatta la sua forza di testimonial, imperniata su unidea di forza e autorità, una poderosa barbarie temperata da ragione instancabile, su pacchetti di sigarette, bottiglie di birra e loghi bancari.
La statua equestre di Pietroburgo è un concentrato ritratto idealistico. Il dinamismo, in pace (le tumultuose riforme che strapparono la Santa Russia dal medioevo) e in guerra, esplode nella figura delluomo in arcione su un cavallo che simpenna. Il braccio destro teso, lo sguardo elevato indicano lavvenire, loccidente.
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