Politica

Di Pietro, il "mostro" creato dalla sinistra

Senatore candidato da D’Alema, ministro di Prodi, alleato di Veltroni: da 13 anni i democratici resuscitano l’ex pm. E ora lo temono davvero

Nell’Apprendista stregone di J. W. Goethe, l’aiutante di un vecchio maestro di incantesimi non riesce più a fermare la scopa impazzita a cui con una parola magica aveva dato vitalità. Cerca di fermarla parlandole ma non riesce a ripetere il sortilegio, allora la spezza in due ma i due tronconi continuano a devastargli la casa. La parabola del «Zauberlehrling» si adatta alla perfezione al rapporto fra il Pd e Di Pietro. Non riescono più a fermarlo. Ogni volta ci provano ma quello tira diritto per la sua strada moltiplicando le fonti di attacco o, se preferite, le bocche di fuoco. Per quattro volte l’ex pm stava per scomparire dalla scena politica e per quattro volte è stato resuscitato. Una volta da D’Alema, due volte da Prodi, infine è stato gloriosamente rimesso in sella da Veltroni. Perché tutto questo sia successo è affidato a congetture segrete e ai cattivi pensieri, che, come si sa, non sbagliano mai.
I fatti dicono che ciascuno ha cercato di accordarsi con lui, giocandolo contro gli altri. Alla fine lui li ha giocati tutti e tre. Ora l’alleato scomodo e inquieto è diventato un concorrente pericoloso che decide da solo i tempi della politica e che si vuole impadronire dell’intera opposizione. C’è stato un tempo in cui Di Pietro era solo un magistrato. Un magistrato d’assalto che aveva preso la prima scena durante «Mani Pulite» ma che era stato anche molto discusso per i suoi metodi e anche per le sue amicizie e gli improvvisi squarci di benessere. La sinistra ha avuto a lungo paura di lui. I boatos milanesi dicevano che fosse un uomo dei servizi, un personaggio di destra animato da profonde ambizioni e colossali frustrazioni. Uno da cui guardarsi. Quando si dimise da magistrato, d’improvviso nel ’94, molti si immaginarono che si sarebbe buttato in politica. Lui sostenne che aveva avuto la proposta di entrare nel primo governo Berlusconi, ma rimase al palo per altri due anni. E lì sarebbe rimasto se non fosse arrivata la prima resurrezione.
L’approdo in politica avvenne, infatti, nel ’96 quando Romano Prodi lo fece ministro dei Lavori pubblici e gli mise come sottosegretario un uomo di D’Alema, Antonio Bargone, oggi a capo di un ente pubblico. Il primo governo Prodi durò poco, ma Di Pietro assai meno. Dopo sei mesi, invischiato in una inchiesta da cui uscirà indenne, si dimise. Però aveva messo a frutto il semestre e fece l’incontro della vita. A casa di Bargone, complice Nicola Latorre, incontrò Massimo D’Alema. Fu la conclusione di un lungo corteggiamento. Chi conosce la storia dice che fu D’Alema a volere fortemente questo incontro con un personaggio culturalmente lontano da sé.
L’idea che il leader dei Ds si era fatto dell’ex pm è sintetizzata in un documento riservato che Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi scrissero per preparare la carriera presidenziale di D’Alema. Di Pietro, sostennero i due consulenti del futuro premier, «è una scheggia potenzialmente eversiva» che va inclusa all’interno del sistema politico «con una operazione morotea». E qualche tempo dopo se ne presentò l’occasione. Il senatore del Mugello Pino Arlacchi (oggi, non casualmente, deputato europeo con Di Pietro) si dimise per un incarico all’Onu e liberò il seggio. D’Alema con un blitz che sconvolse il suo partito candidò Di Pietro. Fu una campagna elettorale singolare. Contro Di Pietro scesero in campo Giuliano Ferrara e Sandro Curzi, ma la decisione di D’Alema fu irrevocabile. Come tutte le volte che la sinistra ha deciso su Di Pietro, non ci fu dibattito. Questa è una costante nel rapporto con l’ex pm e i capi della sinistra. D’improvviso arriva l’ordine di servizio alla base in cui si annuncia un nuovo matrimonio con Di Pietro. Avverrà anche in altre occasioni, come vedremo.
Al Senato Di Pietro combina poco, soprattutto teme di essere dimenticato e un anno dopo, siamo nel ’98, con Elio Veltri e Silvana Mura, la deputata che custodisce con lui il forziere dei finanziamenti dipietreschi, l’ex pm fonda l’Italia dei Valori. Nasce un piccolo e insignificante partito destinato a navigare ai margini della politica italiana al punto che alla prima occasione Di Pietro lo scioglie e confluisce nei Democratici, il partitino del’Asinello con Arturo Parisi e ispirato da Romano Prodi. Ma anche questo matrimonio dura poco e Di Pietro un anno dopo torna da solo. La sua sembra una storia finita. Neppure i girotondi lo rianimano perché hanno scelto come leader Sergio Cofferati, con più carisma e più sintassi.
Quella che Rondolino e Velardi chiamavano la «scheggia potenzialmente eversiva» è domata? Sembra di sì, al punto che Di Pietro è costretto a ricercare nella sinistra disperata alleati nuovi per poter galleggiare. Sembra quasi finito quando nel 2004, nelle elezioni europee, stringe un rapporto con Achille Occhetto, che era stato angosciato negli anni di Mani Pulite dall’ombra del pm che gli arrestava i collaboratori più fidati, e insieme danno vita a una strana lista che li porta in Europa. Qui Di Pietro cede il suo seggio a Giulietto Chiesa, giornalista della Stampa di chiara fama e di nostalgie neo-comuniste. Ma si rompe anche questo sodalizio e si rompe con parole forti che fanno dire a Chiesa che con quel «figuro non voglio più avere rapporti». Come sempre al centro degli scontri di Di Pietro c’è l’annosa questione della destinazione dei finanziamenti elettorali.
Di Pietro torna quindi solitaro y final. Concorre contro Prodi nelle primarie del 2005 e il Professore lo richiama in vita nel 2006 quando lo reinserisce nel governo dove è protagonista di memorabili scontri con Mastella. La sua storia poteva finire qui se Veltroni non avesse dopo Prodi e D’Alema celebrato la quarta resurrezione del capo dell’Italia dei Valori che da capofila di un partito destinato a scomparire oggi si ritrova leader dell’estremismo giustizialista. Il Pd gli grida come l’apprendista stregone: «Ma non verrà il momento/ che tu la voglia smettere?/ io ti voglio prendere/ tenerti stretta», ma come il giovane sciocco allievo del maestro di incantesimi, anche il Pd non riesce a fermare il mostro che ha creato. Ora Di Pietro va da solo, con Grillo e soprattutto nella scia di Repubblica. Non lo fermerà più nessuno.

Se quella sera a casa di Bargone si fossero fatti una spaghettata fra compagni e al Mugello ci avessero mandato il buon Sandro Curzi, forse il caso Di Pietro non sarebbe mai nato.

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