Pinocchio cammina senza magia

Uno spettacolo colorato e ricco di maschere ma gli manca quell’incantesimo tra realtà e fantasia

Dario Vassallo

Uscito dapprima a puntate sul «Giornale per i bambini» nel 1881 e pubblicato in forma definitiva dodici anni dopo, «Le Avventure di Pinocchio», esempio di un filone nazional-pedagogico che in un'Italia che aveva da poco conquistato la propria indipendenza si preoccupava di tessere le fila della ricerca di un'identità nazionale e di un sistema ideologico comune (si pensi anche al coevo «Cuore», 1886), rappresentò una sorta di contenitore nel quale confluiva un vasto patrimonio di esperienze e culture, dalla tradizione orale al teatro popolare, dalla fiaba al romanzo picaresco.
Se vogliamo, un classico esempio nel quale la vitalità dell'opera supera di gran lunga il progetto narrativo, tanto che se continua ad essere letto in tutto il mondo dopo oltre un secolo è certamente più per la simpatia che suscita il protagonista che non per il discorso etico che sottende.
Poi, è vero, il romanzo di Collodi è stato interpretato nei modi più differenti: c'è chi ha preferito sottolinearne i chiari intenti pedagogici, chi lo ha visto - più letterariamente - come un percorso di iniziazione e chi molte altre cose ancora.
Per Tonino Conte rappresenta invece l'essenza stessa dell'avventura, con tutto il corollario di sensazioni che porta con sé - la scoperta, la paura, gli errori, il rimpianto - e che trascina il protagonista attraverso il suo difetto più grande, la disobbedienza continua, a conoscere il mondo che lo circonda e le sue insidie.
A dodici anni di distanza da «Il sogno di Pinocchio», messo in scena nella sala Trionfo, Conte torna adesso a confrontarsi con il burattino più famoso del mondo in maniera meno tradizionale, scegliendo - con «Cammina cammina Pinocchio» - l'open space offerto dalla chiesa di Sant’Agostino: uno spettacolo completamente nuovo che con il precedente condivide soltanto un paio di interpreti (Enrico Campanati e Pietro Fabbri che esalta nel protagonista la sua toscanità) e l'autore dello score, Nicola Piovani.
Così, l'idea del «teatro a stazioni» tanto cara al direttore della Tosse si sposa con un copione che già di per sé presenta questo tipo di struttura, tanto semplice e lineare che i diversi blocchi narrativi si potrebbero spostare senza che l'economia generale ne venga disturbata e il senso stravolto. Solo che il pubblico, in questo caso, più che seguire un percorso predefinito sta sostanzialmente fermo nella navata centrale della chiesa ad osservare la storia che si dipana tutta intorno, tra postazioni fisse e carrelli mobili.
Un gioco della mente e del cuore che parte da un tavolo di osteria dove gli attori offrono vino agli spettatori per poi attraversare tutti i momenti e le situazioni che contribuiranno alla crescita di Pinocchio e alla sua trasformazione in essere umano. Uno spettacolo ricco di colori e maschere affascinanti (le scene sono di Guido Fiorato), interpretato con determinata partecipazione (oltre a Campanati e Fabbri, in scena anche Alberto Bergamini, Massimo Di Michele, marco Grossi, Woody Neri, Mario Marchi, Valentina Picello, Edoardo Ribatto e Vanni Valenza): si lascia guardare con simpatia ma gli manca quella magia, quell'incantesimo sospeso tra realtà e fantasia, che il tema trattato e il luogo che gli fa da cornice avrebbero lasciato immaginare.


Rimarranno soddisfatti i bambini, probabilmente meno gli adulti nonostante il valore universale di un romanzo che continua a rappresentare, a dispetto dei tempi, un paradigma esistenziale seducente, inquieto e per certi versi ancora misterioso.

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