Fiorano - Poche storie: il gruppo è una caserma, la vecchia comanda e la spina abbassa lo sguardo. Il giallo di Fiorano ha dunque una spiegazione molto semplice: il congedante Paolo Bettini, che ha pure i gradi di campione del mondo, non vuole tra i piedi la recluta Riccardo Riccò. Non la vuole nella fuga assassina che comincia dopo 24 chilometri di corsa, e che rischia seriamente di sconvolgere il Giro. Sicuramente lo condizionerà ancora a lungo, vista le gente che guadagna molto tempo, vista la gente che molto ne perde, ma soprattutto visti veleni e coltellate che volano fino all'arrivo.
Sono in ventidue, nella fuga. Ma uno è di troppo. Lui, il pivellino, Riccò. È un talento naturale, promette grandi cose, ma sinora ha messo in mostra due difetti imperdonabili, almeno nella caserma del gruppo: alza la cresta con i congedanti, non abbassa lo sguardo. Il suo errore peggiore lo commette già in primavera, praticamente al Car: parlando dei colleghi, lui che è appena arrivato, li definisce «vegetali». Perché non vanno all'attacco, perché vivono di rendita, perché non s'inventano più nulla. È un'opinione legittima, ma non può pretendere di passare inosservata. I vegetali, su certe cose, si svegliano: altro che, se vanno all'attacco. Qualche giorno dopo, la recluta Riccò ha subito modo di capirlo. Milano-Sanremo: il pivello attacca sul Poggio, ed ecco dietro la furibonda rincorsa di Bettini. Come un gavettone d'avvertimento: occhio, spina, dormi preoccupato.
E siamo al giallo di Fiorano. Riccò si butta nella fuga dove ci sono molti anziani, tra i quali proprio Bettini, che tutti li comanda. Nessuno sarà mai in grado di riproporre per filo e per segno le parole che girano. Ma in caserma non servono neppure tanti discorsi: spina, abbassa lo sguardo e gira alla larga.
È a questo punto che il giallo si fa più giallo: cosa davvero succede nel gruppo in fuga? Soprattutto: cosa davvero succede nella testa della nostra imprudente e sfrontata recluta? La versione ufficiale degli anziani spiega semplicemente che il ragazzo non ce l'ha fatta a tenere il ritmo di marcia. Da parte sua, il ragazzo piagnucola cose del tipo «mi facevano i buchi, mi correvano contro» e via balbettando. Resta il fatto certo: Riccò lentamente si sfila, lui solo, e si fa riprendere dal gruppo.
Siamo alla fase due della storia: le conseguenze. Così facendo, la squadra di Riccò, che è pure quella di Simoni, si trova a inseguire per oltre cento chilometri, aiutata soltanto dal team tedesco della maglia rosa Pinotti. Le altre hanno quasi tutte davanti un proprio corridore. Ma più che altro, non provano alcuna simpatia per la squadra del duo Riccò-Simoni. Risultato finale? Lo spiega meglio lo stesso Simoni, mai così lucido: «Non ho capito le decisioni di Riccò. Ha fatto tutto da solo. Così, però, ha rischiato di buttare a mare il Giro. Abbiamo regalato quattro minuti a tanti corridori tenaci. Non sarà facile, adesso, recuperarli. Se stava in fuga, non avremmo rincorso come folli per cento chilometri».
Non fa una piega. Il vecchio Gibo, stavolta, tiene ragioni da vendere: Riccò aveva l'obbligo di restare nella fuga. Passivo, a ruota. Lasciando pure che la fuga morisse per dissapori interni. Ma almeno la sua squadra non si sarebbe spremuta in una demenziale giornata di rincorsa. È l'Abc della tattica.
E qui perveniamo diretti al punto fondamentale del giallo. Al movente. Perché Riccò non è rimasto in fuga? Se davvero non ce l'ha fatta, siamo al ridicolo: significa che un giovane dipinto come il Pantani di domani non riesce a tenere le ruote su una salitella, dopo solo 25 chilometri di corsa.
Se invece s'è tirato indietro per paura del nonnismo, la preoccupazione è più strisciante, ma non meno seria: significa che non ha personalità. Che usa molto la lingua per dare dei vegetali ai congedanti della caserma, ma che al primo bau corre a nascondersi dalla mamma. Una cosa è certa: la spina che abbassa lo sguardo non vince i Giri d'Italia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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