Plant, il mito dell’hard ci serve un cocktail country rock

da Londra

Guardalo lì Robert Plant, sul palco dell’Hmv Forum di Londra, a giocare all’angelo vendicatore delle radici del rock, troppo spesso strapazzate in nome di una presunta (e furbesca) modernità. Lui è un po’ come Gustav Meyrink, che nel libro L’angelo della finestra d’occidente, attraverso un gioco di reincarnazioni, fa vivere mille vite al filosofo-mago-matematico John Dee (tra l’altro scopritore delle Chiavi enochiane scritte nel presunto linguaggio degli angeli). Esagerato? Neppure tanto; primo perché Plant è un amante di Tolkien e dell’occultista Lewis Spence (ma non un satanista come vuole certa agiografia), poi perché nessuno come lui ha saputo - partendo dal blues - rivalutare e rilanciare nel futuro il passato.
Cosa fa qui? A 62 anni propone il suo ultimo, intrigante cocktail. Troppo facile far risorgere i Led Zeppelin, lui invece resuscita la Band of Joy (il suo gruppo del ’66 in cui militava anche John Bonham) e gli cuce addosso un repertorio sofisticato che spazia dal folk inglese di Richard Thompson al dolente sofferto cantautorato americano di Harm’s Swift Wat Way (il glorioso Townes Van Zandt) passando per il cupo country gospel Satan Your Kingdom Must to Come Down.
Li dona nel suo rito pagano al pubblico londinese in prima europea (l’altro ieri all’Hmv di Londra dopo il trionfale debutto americano) e li inanella in un cd in uscita in tutto il mondo il 14 settembre (operazione che segue Raising Sand, lo splendido album acustico con Alison Krauss che un paio d’anni fa gli fruttò una valanga di Grammy).
Eccolo dunque lì sul palco, biondo e capelluto come un tempo, ma soprattutto capace (come un tempo) di tenere la scena da vero rocker. La voce non ha l’iperpotenza spaccatimpani una volta invidiata da decine di rocker, ma vive di quella inimitabile tensione che carica le canzoni - anche quelle più «leggere» - di una forza emotiva, profonda, devastante. C’è lui e il suo canto guascone, che si fa accompagnare dalla musica come damigella d’onore. Così non esistono più generi ma lo stile di Robert Plant plasma un blues-country-folk-rock-etnico-psichedelico di difficile definizione. Ma perché definirlo poi? Qui contano le vibrazioni che colpiscono al cuore un pubblico trasversale, che scompaginano le certezze di chi è arrivato per spararsi un po’ di hard rock nelle vene e poi s’entusiasma agli agri ruggiti della Angel Dance dei Los Lobos rivisitati, all’inquieta malinconia bluesy di Central Two O Nine, all’inatteso omaggio ai Byrds con la meravigliosa Satisfied Mind. Anche se annuncia: «Non torno coi Led Zeppelin, non diventeremo un circo», porta sul palco alcuni dei classici che lo hanno reso famoso. Rinnova persino quelli più radicati nella mente dei fans come In Misty Mountain Hop e Houses of the Holy non ruvide e allucinate come t’aspetti ma con un fascino nuovo, attuale, penetrante.
I fans sono nelle sue mani. Come Meyrink ha rimescolato le carte e a giudicare dal deflagrante entusiasmo del pubblico sono in vista nuovi allori per l’album. Va beh che alla batteria al posto di Bonhan cresciuto proprio nella Band of Joy, c’è Mario Giovino, va beh che c’è la esuberante cantante country Patty Griffin, ma c’è tanta più energia che in tanto hard rock di plastica. Ma dal primo album dei Led Zeppelin al palco dell’HMV, Plant non è cambiato poi molto. Lo dice oggi spiazzando con la frase: «Anche i Led Zeppelin erano country». Un’iperbole, ma quanti importanti brani acustici sorreggono la storia della band? Oggi come allora, il suo show è un rito che vive sull’invocazione e la trasmutazione di energie.
Fra i boati e gli applausi, Plant se la ride sotto i baffi: ha vinto ancora cucendo insieme passato e attualità, s’è rinnovato guardando indietro come pochi sanno fare e a chi lo critica per la morbidezza di All the King’s Horses, risponde con il ghigno beffardo di Rich Woman e Rock and Roll.


In realtà, nonostante le virate country, rivendica il suo ruolo di guerriero dell’hard rock. Gli altri sono tutti avatar: «La generazione venuta dopo i Led Zeppelin, tutto quel rock macho, grazie a Dio è scomparsa. Tutto quel metal anni ’80 era così pieno di cliché e lontano da noi».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica