Fausto Biloslavo
«Ben fatto» ha esclamato con il solito tono di sfida, Saddam Hussein, quando il procuratore generale ha chiesto per l’ex dittatore e i suoi accoliti la pena di morte. Ieri, alla trentacinquesima udienza del processo per la strage del villaggio di Dujail, dove furono massacrati 148 civili sciiti, il capo degli accusatori, Jaaafar al Mussawi, non ha avuto dubbi: «Chiediamo il massimo della pena per Saddam, Barzan Ibrahim al Tikriti (ex capo dei servizi segreti, nda) e Taha Yassin Ramadan (ex vicepresidente, nda)» ha spiegato il procuratore rivolto alla Corte del tribunale speciale che dal 19 ottobre sta processando sette gerarchi per crimini contro l’umanità. Per Awad Hamad al Bandar, che presiedeva la corte rivoluzionaria di Saddam, il procuratore ha rimesso la decisione finale alla corte, pur raccomandando la pena capitale. «Questi imputati hanno disseminato la corruzione sulla terra e neppure gli alberi potevano scampare alla loro oppressione. Per questo motivo chiediamo alla corte di condannarli a morte» ha detto Al Mussawi rivolgendosi al presidente del tribunale speciale, il giudice Raouf Abdel Rahman. Il riferimento è al fatto che oltre al massacro di 148 abitanti, il regime ordinò di radere al suolo le palme e le piantagioni dell’area per far terra bruciata.
Il processo si basa sui tragici fatti del 1982, quando il convoglio presidenziale di Saddam, diretto in visita a Dujail, fu attaccato da un misterioso commando, ma il dittatore uscì illeso dall’attentato. Per rappresaglia la cittadina venne messa a ferro e fuoco, addirittura con bombardamenti aerei. Gli imputati «hanno ordinato l’imprigionamento di uomini, donne e bambini, che furono torturati mentalmente e fisicamente utilizzando anche l’elettroshock» ha spiegato in aula un altro procuratore il cui nome non è stato rivelato per motivi di sicurezza. «Si trattò di un attacco sistematico e su vasta scala ha sostenuto la pubblica accusa -. Il tutto venne fatto sotto la diretta supervisione di Ibrahim, che era allora alla guida dell’agenzia di intelligence Mukhabarat e che partecipò personalmente alla tortura di quanti erano detenuti». Fu Saddam, come lui stesso ha ammesso, a ordinare i processi farsa. Alcune vittime morirono durante i brutali interrogatori, altri vennero condannati a morte senza prove, in pochi minuti. Numerose famiglie furono detenute segretamente in una prigione in mezzo al deserto in condizioni inumane. Al Mussawi pone dei dubbi anche sull’attentato, che avrebbe scatenato la strage. La visita non era stata programmata, ha spiegato il procuratore generale, «come potevano dunque 148 persone essere a conoscenza del passaggio del convoglio e organizzare l’attentato al presidente della Repubblica?». Inoltre Saddam e la sua scorta non hanno riportato alcuna ferita.
La pubblica accusa ha invece chiesto l’assoluzione per Mohammed Azzaoui, all’epoca dirigente locale del partito Baath, oggi seriamente ammalato. Per altri tre «pesci piccoli» del defunto partito sono state chieste pene lievi. Il processo è stato aggiornato al 10 luglio, per le arringhe dei difensori. Saddam, in completo nero, ha seguito impassibile la requistoria prendendo ogni tanto appunti. L’ex raìs è sicuramente la star della Norimberga irachena, ma il suo fratellastro Barzan, il torturatore, faceva parte della cosiddetta «sporca dozzina», il cerchio ristretto di collaboratori. Ex capo dei servizi segreti puntava a succedere a Saddam al posto dei figli.
Ramadan, vicepresidente dell’Irak dal 1991 al 2003, era un mediocre ufficiale dell’esercito, quando condannò a morte 44 militari sospettati di voler rovesciare il regime.
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