Poesie per gli angeli custodi di una Vicenza che non c’è

Fernando Bandini racconta la sua città e molto altro in «Dietro i cancelli e altrove»

A chi per un qualsiasi motivo si sentisse in lite con la Poesia, ma cercasse una riconciliazione, suggerirei di entrare nel nuovo libro di Fernando Bandini, Dietro i cancelli e altrove (Garzanti, pagg. 101, euro 18), che si integra come in un ideale trittico ai due pubblicati nel 1994 e 1998 presso il medesimo editore: Santi di Dicembre e Meridiano di Greenwich. Di quelle due raccolte tutto, o quasi, si rilancia nella più recente ma con un’ombra luttuosa aggiuntiva, una musica più grave, ispirata a un senso del morire che non è solo un colore diffuso ma tema autobiografico. Lo si verifica già in apertura («...ormai sono stanco, verso l’alba/mi si chiudono gli occhi...»), con apice espressivo nella Descrizione della mia morte al tempo delle guerre in Medio Oriente. Qui il richiamo all’attualità non serve che da pretesto all’immersione in un onirico oltretempo e oltretomba («Medio Oriente» significa anche epos classico e Bibbia), pur senza che il poeta vi si liberi dal carico impostogli dal proprio «secolo» (insiste per esempio, dal 1944-45, il «lungo cupo rombo/di fortezze volanti» su Vicenza). Come nel carducciano Sogno d’estate, è una lettura di Omero a favorirgli il passaggio da un universo all’altro: ora distingue le schiere dei Mirmìdoni, in una zona gremita di «larve» (e ridotto a larva ormai lui stesso); infine, delicata parodia del celebre luogo dell’Odissea, gli appare la madre, che in un lontano «giorno d’estate», sulla nostra terra, aveva tratto in salvo i suoi cari, minacciati dal cielo. Lei sulle prime non lo ravvisa, quel figlio così debole e inerte adesso, quanto da vivo si era mostrato «sedizioso fautore/di una diversa pace». Ma basta che Fernando le rinnovi una memoria comune, e il loro «antico nodo/terrestre» si rifà stretto, anche se - lo sappiamo da Omero, da Virgilio e da Dante - l’abbraccio fra le ombre non è possibile.
Tema intimo e solenne, ripreso e ampliato immediatamente dopo, nel primo dei due testi in latino (superfluo rammentare il prestigioso curriculum di Bandini poeta in «lingua morta»): Ramus Aureus-Il ramo d’oro è una saffica dedicata alla madre, e al fiorellino che giace avvizzito in un vecchio libro di preghiere di lei. I classici dicono che il «ramo d’oro» potrebbe consentire l’ingresso nei «regna beata»; ma dove trovarlo? Così, nell’ordine del libro, si giustifica un cammino a ritroso, il tentato recupero dell’infanzia e dei suoi aerei «Custodi»: è la serrata sequenza Sirventese in forma di bolero sugli angeli superstiti di Aznèciv. Come già in passato, il nome di Vicenza va letto a rovescio, allo specchio: e lo specchio riflette, lascia rifluire figure e casi tutelati da una serie di «angeli». Ma «l’ultimo angelo (...)laggiù/all’imboccatura di una stretta convalle/dei Berici fa il conto dei miei anni.//Mi grida da lontano: “Perché ti affanni/ a correre? C’è il vuoto alle tue spalle,/ i fantasmi di Aznèciv non t’inseguono più!”».
Molto altro contiene quest’opera, conclusa in bellezza dal poema latino in esametri, resoconto De itinere reginae Sabaeae. In lingua italiana, l’epilogo non tace l’ineluttabile: «Finché il cuore che sempre insoddisfatto/si lamenta la morte avrà zittito». Ma la complessiva cupezza della trama si apre alle vibrazioni canore e alle ilari tinte del rigogolo e del pettazzurro e a una profusione botanica, tra erudita e domestica... E se un titolo recita «natura morta» (Natura morta con mappamondo), il «morta» suona convenzionale, essendoci più vitalità in «quei festoni/di alchechengi con una bacca in cuore» di quanta non se ne colga spesso nelle cose dell’uomo.

Quella di Bandini è una musica alta ma comunicativa, tale negli endecasillabi perfetti come nel loro variare per eccedenze o potature, rafforza in noi l’impressione di una rara maestria, che nella forma e nella materia salda il moderno all’arcaico, il quotidiano al sublime.

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