Con la scomparsa di Tomaso Kemeny, l'Italia e l'Europa perdono un grande, autentico poeta e combattente in nome della poesia. E noi che lo abbiamo conosciuto e amato perdiamo, e già ci sentiamo più soli, un amico generoso, illuminante, spiritoso, appassionato, con cui era delizioso conversare, seguendo il filo dei suoi paradossi brillanti, i suoi motti di spirito, i suoi umori che andavano dalla gioia sfrenata a una incredibile capacità di commozione. Tomaso era un uomo coltissimo ma senza nessuna prosopopea o postura accademica. Le sue lezioni di Letteratura inglese all'Università di Pavia hanno lasciato tracce imperiture nei suoi studenti. I suoi lavori critici su Dylan Thomas, innanzitutto, e su Shakespeare, Marlowe, Blake, Shelley, Coleridge, Joyce, le sue traduzioni da Byron e dallo stesso Marlowe ne dicono la statura di anglista. Ma ad ascoltarlo si capiva che era la poesia il motore di tutta la sua attività, era la poesia che reggeva tutto e dava senso alla sua vita. Tomaso era un uomo cosmopolita.
Nato nel 1939 a Budapest, ha vissuto negli Stati Uniti, è stato in Francia vicino a André Breton, il fondatore del Surrealismo, e dopo la caduta del Muro di Berlino ha ripreso a frequentare il suo Paese natale, l'Ungheria, dove ha ricoperto ruoli importanti, anche di organizzatore culturale. Ma a dieci anni era già a Milano, e Milano diventa la sua città. L'italiano diventa la sua lingua. Ho conosciuto pochissimi autori innamorati della lingua italiana come Tomaso: era capace di recitarti a memoria un madrigale del Tasso, di fartene sentire tutte le sfumature liriche e sensuali, e al di là di ogni pregiudizio non nascondeva mai la sua ammirazione per il D'Annunzio signore della parola.
Spirito libero, eccentrico, aristocratico, lontano da ogni meschina compromissione, da ogni piccineria, Tomaso aveva un amore assoluto per la Bellezza e la Grandezza. Ma la Bellezza in lui non si addomesticava mai, non diventava mai precetto o passatismo, si fondeva con i sensi, la carne, i sogni. E la Grandezza si coniugava in lui con un formidabile senso dell'humour, con una propensione alla bizzarria, con una vena di eroica follia creativa. Tomaso era un militante della Bellezza. Lo ricordo sempre quando solo, statuario, improvviso, in un convegno milanese di bravi poeti pavidi e tristi, sfoderò sul palco un pugnale e si lanciò nel suo urlo byroniano di battaglia: "Fight for Beauty". Che gelo cadde intorno. E che gioia ammirata provai io per quella professione di fede fremente e ludica, ma serissima, carica di valore spirituale.
Principale fondatore e poi a lungo anima della Casa della Poesia di Milano, Kemeny non ha avuto dalla società letteraria tutto quello che gli spettava. Ma a lui la stessa idea di società letteraria doveva essere indifferente, o addirittura ignota. Ha avuto invece, e conta di più, l'amore di lettori e seguaci. La sua opera muove da un libro avanguardistico pubblicato bilingue, in inglese e in italiano a New York, Il guanto del sicario, del 1976, e arriva al lirismo verticale e visionario del Libro dell'Angelo, che è uscito da Guanda nel 1991, nella collana allora da me diretta, al poema epico e onirico della Transilvania Liberata, del 2005, poi tradotto in ungherese e in tedesco, dove hanno parte figure simboliche, mitiche e archetipiche tra cui è dominante quella della Madre: vertice forse delle sue energie creatrici e mitopoietiche. Ma nel 2012 usciva il Poemetto gastronomico e altri nutrimenti che offre invece al lettore un'altra faccia di questa energia, una godibilissimo sarabanda di trovate metriche, ritmiche, musicali dall'andamento scopertamente rossiniano. Tra le sue opere in prosa, va ricordato un Don Giovanni innamorato, pieno di geniali trovate erotiche, e più tardi Per il lobo d'oro, un memoir di grandissimo potere evocativo.
Una volta aderito al mitomodernismo, che ebbe proprio su questo giornale il primo manifesto firmato da Stefano Zecchi e da me, Tomaso ne diventò man mano il propugnatore più impegnato, immettendovi il suo spirito movimentista, la sua vena surreale, la sua capacità di sogno. All'occupazione di Santa Croce a Firenze arrivò fasciato in una divisa napoleonica e con occhiali da sole dalla montatura bianca, il che ne fece subito un'icona di trasgressione, gioco, fantasia. La sua attività si espresse poi nella occupazione del "Colle dell'Infinito" di Leopardi, che guidò circondato da giovani entusiasti. Lì si manifestava in pieno la vocazione di Tomaso, che era quella di portare la parola a diventare azione, e l'azione a diventare battaglia in nome di un ideale umano, incoercibile di Bellezza. Quest'uomo che sfoderava pugnali e inneggiava al combattimento, era in realtà il più mite, svagato, giocoso, empatico del mondo. Laico sin nel midollo, non credeva certo nel Paradiso.
Ma se c'è un Paradiso di chi ha vissuto e amato poeticamente, Tomaso ora è là. E se in quel Paradiso ci sono belle cameriere, sta scherzando amabilmente e cavallerescamente con loro. Pensando a nuovi madrigali, a nuove canzoni.