Polanski è libero, ma la giustizia è un’altra cosa

Roman Polanski di anni settantasei, ritorna libero, può lasciare il suo chalet di Gstaad, dove ha trascorso, faticosamente vivendo, il periodo degli arresti domiciliari. La Svizzera li ha revocati e ha respinto la domanda di estradizione presentata dalla giustizia statunitense. Il regista, dunque, non sarà sottoposto a processo. Può circolare per le strade di Berna, concedersi gite in barca sul lago di Ginevra, trasferirsi nella dolce Parigi. Il passato, suo, non conta, è un film senza storia, con poca cronaca. Polanski, per gli smemorati, era stato fermato al suo arrivo a Zurigo nel settembre del duemila e nove sulla base di un mandato di cattura spiccato negli Stati Uniti con l’accusa di aver avuto atti sessuali con una minorenne di tredici anni nel 1977. Samantha Geiger è il nome della ragazza, oggi quarantenne e madre di figli tre, era stata attirata in un festino a casa di Jack Nicholson, Polanski le aveva promesso una carriera di modella, poi l’aveva stordita con la droga e stuprata più volte. La Geiger, trent’anni dopo, avrebbe perdonato lo stupratore ma la giustizia americana ha voluto ugualmente portare a termine la sentenza. Polanski aveva ammesso le proprie colpe, condannato a novanta giorni da trascorrere in una clinica psichiatrica, aveva scelto, dopo un periodo di quasi due mesi, la fuga all’estero, dicesi esilio, puntando verso la Francia, sua seconda culla esistenziale, paese abituato a raccogliere filosofi, romei, anime perse, terroristi, artisti bohemien e poeti maledetti. Banlieu e milieu si erano finalmente trovati d’accordo per sottoscrivere un specie di lodo Polanski, una sorta di purificazione e di beatificazione del maestro dell’arte cinematografica, del regista de Il Pianista, di Chinatown, di un uomo che all’età di quarantatrè anni, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, fisiche e, ça va sans dire, culturali, aveva sodomizzato e drogato una bella ragazzina, illudendola, come sanno fare i professionisti del genere, facendole sognare una carriera più luminosa e affascinante di quella stanza dove era avvenuto il fatto, «un incidente isolato» secondo una corrente di pensiero dei cosiddetti intellettuali francesi oppure «un affare di costume vecchio di trent’anni» secondo la teoria fresca e democratica del quotidiano francese Liberation. Perché la giustizia non può essere uguale per tutti, se trattasi di artista (o di religioso, secondo le ultime notizie di cronaca) allora il codice va letto in modo più elastico e moderno. Samantha Geiger, lei invece, è stata liquidata in due righe, si è pentita, ha mentito sull’età, anzi avrebbe percepito fior di dollari, su sollecitazione di sua madre, dunque una escort e la sua pappona, approfittando del grande circo mediatico costruito attorno alla vicenda e che avrebbe indebolito e inchiodato il regista.
Di colpo la certezza della pena è diventata un asterisco fastidioso, una nota a margine da eliminare; di colpo lo stupro di una minorenne è passato in secondo piano rispetto allo spessore internazionale dell’artista, al significato della sua opera, al messaggio etico che lo stesso ha inviato al popolo intero. La violenza su una donna, a volte, può avere le sue giustificazioni, se la minorenne fa la furba, anzi, va svergognata lei e assolto lo stupratore ingenuo, soprattutto se costui appartiene a una certa casta privilegiata. Si sono mosse le coscienze libere, il corteo degli uomini e delle donne di intelletto, quelli che vengono definiti intellettuali (gli altri ne sono, ne siamo, sprovvisti) ieri hanno stappato champagne, trattandosi di un cittadino francese, di origine polacca, perseguitato da un’esistenza maledetta, il campo di concentramento, la morte atroce della madre, l’omicidio satanista della moglie Sharon Tate ammazzata con altri quattro ospiti in casa, insomma una vittima del male ma, al tempo stesso, un martire citoyen per cui gli allonsenfants sono scesi in piazza per difenderlo e liberarlo dall’ingiustizia americana. Il ministro della Cultura francese Frederic Mitterrand è soddisfatto perché Polanski può finalmente ritrovare la comunità di artisti che lo hanno sostenuto con calore e rispetto (anche il titolare della villa di Los Angeles?); il filosofo Bernard-Henry Levy addirittura è pazzo di gioia perché, dice, «giustizia è fatta». Non so a quale giustizia faccia riferimento l’illustre pensatore, quella americana ha idee e sentenze diverse da quella svizzera.
Ma quello che pensano nei tribunali americani è roba da fiction televisiva, non conta. Polanski può essere di nuovo invitato alle feste nelle ville dei vip, è libero di vivere.

Sulla sua pellicola resterà quella macchiolina del Settantasette, roba piccola per un grande maestro del cinema costretto in uno chalet svizzero a osservare il mondo cattivo agitarsi attorno a lui, un uomo che prova vergogna. Per quei giorni passati in galera e non per lo stupro di una donna. Un pessimo attore per il peggiore film della sua vita.

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