Dal Poldi Pezzoli passando per Villa Necchi

Q uale filo sottile lega una metropoli occidentale come la nostra, vittima dalle degenerazioni del benessere, a un villaggio del Ruanda prostrato dalla fame e dalle memorie del genocidio? La risposta può arrivare dall’arte quando da oggetto diventa strumento di pubblica conoscenza, riflessione e dibattito. Così, desta particolare interesse il progetto dell’artista cileno Alfredo Jaar, presentato ieri all’Hangar Bicocca e allo Spazio Oberdan a cura di Gabi Scardi e Bartolomeo Pietromarchi e promosso dalla Provincia di Milano con la collaborazione della Regione Lombardia. «It is difficult», questo il titolo, si articola in due parti. La prima è una vera e propria antologica di un artista cresciuto negli anni difficili della dittatura di Pinochet e che da sempre sviluppa opere di denuncia politica e sociale attraverso video, fotografia, installazioni e interventi sul territorio. La seconda, invece, riguarda un progetto di arte pubblica ideato dall’artista specificamente per la città di Milano e realizzato grazie alla collaborazione di Igp Decaux e Mba Group. L’indagine riguarda il ruolo dell’arte e della cultura sullo sviluppo della società e si articola attraverso fasi diverse, come l’affissione in città di domande rivolte agli abitanti, una lecture pubblica che si terrà il 4 ottobre allo spazio Oberdan e un convegno internazionale che si svolgerà il 21 gennaio al Teatro Litta.
L’utilizzo di strumenti mediatici e pubblicitari per comunicare un pensiero al grande pubblico rappresenta un cavallo di battaglia di numerosi artisti che fin dagli anni ’60 sono stati impegnati nella cosiddetta public art. Alfredo Jaar, architetto e filmaker, fa parte di una generazione di artisti che nel Latinoamerica sono stati particolarmente concentrati nel progetto di dar voce a culture delle geografie minori e della condizione postcoloniale.

Negli spazi dell’Hangar Bicocca, che già in passato ha ospitato pregevoli testimonianze dell’arte contemporanea internazionale, sono esposte installazioni di grande impatto come «The Sound of Silence», una grande scatola al cui interno vengono trasmesse immagini e parole riferite alla fame nel mondo, oppure «Untitled», sei light boxes con scorci di mare nella Baaia dell’Incontro di Hong Kong dove, durante gli anni ’80, approdavano i profughi vietnamiti. La sezione dello spazio Oberdan, invece, comprende video, fotografie e lightbox che l’artista ha dedicato alla situazione di Paesi africani come Ruanda, Angola e Nigeria.

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