Oggi non si apre soltanto una busta. Oggi si apre o si chiude per sempre la partita industriale forse più importante del momento. I commissari di Acciaierie d'Italia in amministrazione straordinaria sono chiamati a dire se l'ex Ilva può ancora essere salvata o se il Paese ha definitivamente scelto la strada dell'irrilevanza industriale, mascherandola da tutela ambientale e da difesa di diritti che non sempre sono tali.
Dopo tredici anni di gestione stravagante quando non dissennata, decreti tampone, ricorsi incrociati, volgare propaganda, ipocrisie e 50 miliardi di Pil bruciati, non esistono più alternative credibili. O si accetta un piano di risanamento-rilancio vero, con capitali privati, sacrifici sociali e un intervento diretto dello Stato, oppure si prenda atto che l'Italia rinuncia all'acciaio primario e diventa dipendente dall'estero per ogni infrastruttura strategica.
Le offerte sul tavolo sono quello che resta dopo due anni di tentativi falliti del ministero guidato da Adolfo Urso (ma la colpa è anche di altri) e dopo un decennio di sabotaggi politici e giudiziari. Sia chiaro, non sono offerte da salti di gioia. Né sono indolori. Ma sono le uniche. Flacks Group e Bedrock rappresentano l'ultimo treno. E chi oggi proverà a farlo deragliare dovrà assumersene la responsabilità davanti al Paese.
La proposta di Michael Flacks è, numeri alla mano, l'unica che parli davvero di industria. Ottomilacinquecento occupati, investimenti stimati per 5 miliardi, una presenza pubblica transitoria al 30-40%. Un euro simbolico per l'acquisto, certo lascia stupiti. Ma chi conosce queste operazioni sa che il prezzo non è il problema: il problema sono i capitali che seguono e il rischio che qualcuno è disposto a
prendersi.
Bedrock, invece, finora ha giocato una partita assai più modesta: pochi occupati, investimenti scaricati sullo Stato, un'idea di ridimensionamento che equivale a una lenta eutanasia. Anche nella versione migliorata (rispetto a quella di agosto), con 5mila addetti e una divisione degli investimenti, resta un piano che non garantisce la continuità industriale di Taranto né il ruolo strategico dell'impianto. Difficile che in tre mesi l'abbia modificata radicalmente.
Ma il punto non è scegliere tra due fondi: se offrono le garanzie necessarie, nulla quaestio. Il punto è dire finalmente la verità a un territorio, ai sindacati, alla magistratura e alla politica locale: l'ex Ilva non può essere insieme grande, pulita, occupazionale, gratuita e priva di conflitti. Questa favola, raccontata dai Cinquestelle di Giuseppe Conte e dalla sinistra più ideologica con spinte modello Schlein, ha prodotto solo macerie. La magistratura tarantina, che da anni sfida governi di ogni colore con una arroganza che meriterebbe ben altra risposta da parte del governo, ha ottenuto il risultato di paralizzare gli investimenti senza offrire una sola alternativa industriale. I sindacati hanno difeso ogni posto di lavoro sulla carta, salvo poi invocare la cassa integrazione permanente come fosse un atto dovuto. Infine, la politica locale ha soffiato sul fuoco del consenso con raro piglio anti-Stato, salvo poi pretendere miliardi-sanatoria da quello stesso Stato.
A questo elenco va aggiunta una responsabilità troppo spesso taciuta: quella degli acciaieri italiani. Un settore che ha beneficiato di copiosi sostegni pubblici, dagli aiuti sull'energia alle misure emergenziali, ma che non ha mai trovato il coraggio o la visione di affrontare un'operazione industriale di sistema sull'ex Ilva. Tutti pronti a invocare protezioni, nessuno disposto a esporsi su Taranto o Genova. Perché l'acciaio va bene finché è profitto, non quando richiede investimenti, conflitti e scelte impopolari.
E i governi? Dal sequestro a carico dei Riva in poi, tutti colpevoli. Ma su Conte 1 e Conte 2 pesa una responsabilità storica: aver scelto la strada della non-decisione, dell'eterna proroga, dell'obbedienza preventiva a pm, comitati e piazze. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un'azienda decotta, un impianto che cade a pezzi, migliaia di famiglie sospese. Ora si chiede allo Stato di entrare per il 30-40% attraverso Cassa depositi e prestiti. È uno strappo ai principi liberali? Sì. Ma è uno strappo necessario. Perché l'Italia senza acciaio non è un Paese moderno, ma una periferia manifatturiera dell'Europa.
Il fallimento dell'esperimento Invitalia dimostra che il pubblico da solo non basta. Ma dimostra anche che senza il pubblico nessun privato serio si avvicina a Taranto. È questo il compromesso da accettare, senza infingimenti ideologici.
Oggi finisce il tempo delle alzate di spalle. Se questa operazione salta, non ci saranno altre offerte, altri bandi, altri miracoli. Ci sarà solo la chiusura definitiva, mascherata da riconversione. E allora ciascuno dovrà guardarsi allo specchio. I magistrati che hanno governato l'acciaieria senza mai rispondere delle conseguenze. I sindacati che hanno detto sempre no senza mai sedersi davvero al tavolo.
I politici che hanno preferito l'applauso facile alla scelta difficile. Gli acciaieri che hanno incassato aiuti senza assumersi rischi. E i governi che hanno lasciato marcire la più grande acciaieria d'Europa.Oggi è l'ultima chiamata. Dopo, solo rovine.