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Le bugie e l'ipocrisia americana sull'intervento italiano in Afghanistan

Per gentile concessione della casa editrice Laterza pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Massimo de Angelis e Giampaolo Cadalanu, La guerra nascosta. L'Afghanistan nel racconto dei militari italiani

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Mentre a Herat si allargava l’impegno del contingente schierato a RC-West, per i militari italiani di Camp Invicta, a Kabul, il lavoro andava avanti normalmente. Il 17 settembre 2009 due blindati Lince che tornavano dall’aeroporto furono investiti poco dopo mezzogiorno dall’esplosione di un’autobomba guidata da un terrorista suicida all’altezza dell’ospedale militare della capitale, poco prima della rotatoria intitolata ad Ahmad Shah Massoud. I cinque paracadutisti della brigata Folgore a bordo del blindato più vicino all’esplosione rimasero uccisi tutti, come morì il mitragliere che stava in piedi sulla ralla (la torretta sopraelevata) del secondo Lince, ribaltato dalla forza della bomba. Anche 15 passanti afghani persero la vita. Il bilancio dei feriti contò quattro occupanti del secondo mezzo e 55 afghani.

L’auto usata per l’agguato era una Toyota Corolla bianca, scelta prediletta per gli attentati secondo il luogo comune, in realtà modello enormemente diffuso in Afghanistan, facile da confondere nel traffico. A bordo, secondo la Difesa, erano stati caricati almeno 150 chili di tritolo. L’attacco fu poi rivendicato dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, secondo cui il suicida si chiamava Hayutullah. Nelle ore successive all’agguato, si diffuse a Camp Invicta la notizia che i talebani avessero organizzato un attacco combinato, seguendo un modello già sperimentato da Al Qaeda: prima un suicida, a piedi o con autobomba, apriva la strada, poi partiva l’assalto di altri miliziani armati di kalashnikov e dotati di cintura esplosiva, quest’ultima utilizzata per non cadere vivi nelle mani del nemico e possibilmente uccidere ancora qualcuno. Questa ricostruzione era legata al fatto che i militari sopravvissuti avevano sentito gli spari nei momenti successivi all’esplosione.

In quei giorni si raccontava che altri contingenti della coalizione, coinvolti in attentati, avevano reagito perdendo il controllo e avevano sparato su tutto quello che si muoveva attorno alla zona dell’attacco. Chi scrive si sentì suggerire l’ipotesi che la storia dell’attacco combinato potesse essere una scusa, un modo per mettere le mani avanti se fosse stato scoperto che le vittime afghane erano state provocate da pallottole italiane. Per spazzare via dubbi così preoccupanti serviva una serie di controlli sul campo. Fu indispensabile intervistare decine di testimoni: i venditori delle bancarelle sui lati della strada, i sarti delle botteghe accanto, i medici, gli infermieri, i responsabili del triage, il personale della morgue e persino le sentinelle dell’ospedale militare vicino al luogo dell’attentato. Nessuno segnalò di aver visto sparare sulla gente, nessuno trovò segni di pallottole sui corpi degli afghani morti o feriti: solo schegge
dell’autobomba.

Mohammad Ewazi, impiegato dell’obitorio, si era occupato delle salme, le aveva pulite e preparate per la sepoltura: «Tutti i corpi presentavano segni di schegge, nessuno aveva traccia di pallottole». Il racconto era univoco: i sopravvissuti del convoglio avevano sparato in alto o per terra, non sui passanti. Solo un ferito, nel reparto Medicina uomini, propose un racconto diverso, che però servì a confermare senza più ombra di dubbio che gli italiani non si erano lasciati andare ad atrocità. In altre parole: i militari sopravvissuti, usciti dal Lince ribaltato, avevano prima di tutto pensato a mettere in sicurezza l’area dell’attentato. Avevano sentito gli spari – fu chiarito più tardi che non era una seconda fase dell’attentato, ma il tentativo della polizia afghana di farsi largo nel traffico il prima possibile – e avevano reagito da manuale. Erano tre paracadutisti – il quarto passeggero era un ospite, un aviere, che fu spinto a ripararsi sotto il blindato – e avevano appena visto il commilitone cadere coperto di sangue dalla sua postazione alla ralla.

Degli altri, quelli sul primo Lince, non sapevano ancora nulla. Non c’era il tempo di farsi domande: bisognava garantire che la zona fosse sicura. L’afghano sconosciuto che si muoveva in mezzo alla polvere poteva essere chiunque, magari un elemento ostile. Ma il mandato dell’Italia era quello di aiutare la popolazione civile. A sentire le chiacchiere degli ambienti di Forze armate, forse i soldati di un altro contingente si sarebbero fatti prendere dalla rabbia, o avrebbero preferito togliersi del tutto il dubbio sparando sullo sconosciuto, e poi magari inventando qualche bugia sul suo comportamento.

Quel giorno, con i soldati italiani, non accadde. Ma non era finita. Dopo l’arrivo della Quick Reaction Force, la forza d’intervento rapido, con l’area già messa in sicurezza e i soccorsi che erano impegnati sui feriti, si rischiò un incidente. La giornalista Sarah Davison deve la vita al sangue freddo dei soldati italiani.

"Non sparate". Testimonianza di Sarah Davison

Come mi avvicinai, la folla di afghani mi vide, si spostò allontanandosi da me, mormorando, dalla parte anteriore dell’edificio distrutto a un lato. Non avevo mai visto una folla muoversi in quel modo, era come un’onda, uno sciame. Stavo parlando al telefono con la CBC, che era in ritardo sul collegamento. Iniziai a gridare: devo andarmene da qui, mi farete ammazzare. L’ufficiale di guardia mi vide e cominciò a gridare contro di me: «Ferma! Ferma! A terra! A terra!». Gridai: «Giornalista! Giornalista!», e lui mi puntò contro il fucile. Improvvisamente mi resi conto che stavo per essere colpita e lanciai via il telefono. Poi ci fu un grido, un ordine, e tutti i soldati si inginocchiarono all’unisono e presero la mira. Verso di me. Iniziai a urlare: «Giornalista della CBC! CBC! Non sparate! Non sparate!» e l’ufficiale alzò la mano. Mi inginocchiai. Lui ordinò alla polizia afghana di perquisirmi. Loro rifiutarono. Alla fine, un soldato afghano molto riluttante si avvicinò e mi perquisì, confermando che non indossavo una cintura esplosiva. L’ufficiale mi gridò di levarmi dal cazzo. Mi voltai e me ne andai. Velocemente. Immediatamente, i bambini afghani sciamarono verso di me e la polizia afghana cominciò a seguirmi, urlandomi contro. I bambini correvano davanti a me, mi sputavano addosso, mi lanciavano oggetti. Non avevo intenzione di correre perché sarebbe finita in un disastro, quindi mi affrettai il più possibile. Ma la fine della strada, dove il taxi mi stava aspettando, sembrava molto lontana. All’improvviso, un afghano si avvicinò e disse in inglese: «Cammina con me. Non aver paura», mostrandomi un documento della Mezzaluna Rossa. Ci precipitammo lungo la strada, mentre lui e la folla continuavano a gridarsi contro. Alla fine della via, salii sul taxi mentre il tizio della Mezzaluna Rossa faceva a pugni con due poliziotti afghani.

Fu terribile.

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