I "nuovi" barbari anti Occidente

I nuovi barbari vengono dalle banlieue, dalle no-go zone, terre di nessuno che i governi hanno abbandonato a loro stesse e che faticano a capire

I "nuovi" barbari anti Occidente

A coniare il termine erano stati gli antichi greci. Bar-bar. Una parola onomatopeica. Già nel pronunciarla rendeva molto bene l'idea di qualcosa di incomprensibile, di qualcosa di lontano, di qualcosa di diverso. Certo, nella lingua. Ma anche nei costumi e, quindi, nella cultura. Perché se «barbaro» voleva dire in prima battuta «balbuziente», in quanto incapace a farsi capire, per traslato era poi finito ad indicare lo «straniero», quello che veniva da fuori, che era estraneo al mondo civile, che portava distruzione.

I barbari erano popoli incapaci a parlare. Popoli le cui parole erano molto più simili ai versi degli animali che a quelle degli umani. Popoli che arrivavano per seminare il terrore e sovvertire l'ordine civile instaurato. Non a caso i romani iniziarono a legare alla parola «barbarus» l'aggettivo «ferus». Violento, appunto. E, se col passare dei secoli un filosofo come Michel de Montaigne arrivò ad estendere il concetto spiegando che «ognuno definisce barbarie quello che non è nei suoi usi», oggi proprio in Francia quel termine finito su tutti i giornali quando il ministro dell'Interno, Bruno Retailleau, lo ha pubblicamente usato per commentare i disordini seguiti ai festeggiamenti dei tifosi del Paris Saint-Germain. Non più usato, quindi, ad indicare popoli che vengono da oltre i confini per distruggere. Ma per lo più figli di immigrati di seconda e terza generazione, mai integrati, che portano il disordine, che mettono a ferro e fuoco, che distruggono il Paese che li ha accolti. Perché quel Paese non è la loro patria. Non lo è mai stato e probabilmente mai lo sarà. In quanto portatore di cultura, valori e religione diversi dai loro, lo percepiscono come un simulacro da abbattere. E ogni occasione è buona per farlo, anche una finale (vinta) di Champions.

Il commento del ministro Retailleau appare su X la sera stessa della partita. «I veri tifosi del Paris Saint-Germain si stanno entusiasmando davanti alla magnifica partita della loro squadra», scrive. «E intanto, dei barbari sono arrivati nelle strade di Parigi per commettere reati e provocare le forze dell'ordine». L'indomani il bollettino degli scontri è drammatico. Perché non ci si limita a fare la conta dei danni con negozi devastati e saccheggiati, vetrine mandate in frantumi, automobili e motorini bruciati, pensiline e panchine divelte, falò appiccati in mezzo alle strade. A pesare sul bilancio ci sono pure i feriti, a centinaia (c'è pure un poliziotto colpito all'occhio da un fuoco d'artificio improvvisato). E persino due morti. Tanto da risultare improprio, se non addirittura grossolano e riduttivo, parlare di disordini. Quella andata in scena la notte tra il 31 maggio e il primo giugno 2025 è stata vera e propria guerriglia urbana. Una guerra che negli ultimi decenni ha prodotto scontri violentissimi e, nel periodo delle bandiere nere dello Stato islamico, anche sanguinosi attacchi terroristici.

I nuovi barbari vengono dalle banlieue, dalle no-go zone, terre di nessuno che i governi hanno abbandonato a loro stesse e che faticano a capire. Perché farlo significherebbe doverle combattere. Eppure il problema era lì da vedere già nel secolo scorso, raccontate nel 1995 da Mathieu Kassovitz nel film L'odio. «Questa - diceva la voce narrante di Hubert nella scena iniziale - è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: 'Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene'. Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio». E l'atterraggio, in tutti questi anni, è stato sempre devastante.

Vent'anni fa, in quelle stesse banlieue, i giovani, che si lasciavano crescere la barba come gli imam che li radicalizzavano, venivano soprannominati «barbus». Barbuti, appunto. Termine non lontano, per il suono che evoca nel pronunciarlo, a barbari. Ed è interessante notare come in un articolo apparso su Le Monde nel 2006 già si denunciava che «i barbus avevano sostituito la Repubblica».

Oggi da quelle stesse banlieue si sta diffondendo un altro termine. Che, ancora una volta, non indica qualcuno che arriva da fuori ma chi sta dentro. Si tratta di «gwer» o «gouer». Parola di origine ottomana che veniva affibbiata ai non musulmani. Quindi, a tutti gli infedeli. Oggi serve ad additare, con disprezzo, i bianchi. Qualche mese fa l'espressione «branco di gwer» è stata usata da una comica in televisione. Nessuno ha battuto ciglio. Ovviamente se un bianco avesse detto «branco di arabi» o «branco di immigrati» sarebbe finito nel tritacarne mediatico e probabilmente la sua trasmissione chiusa ancor prima che potesse scusarsi.

Quello che è in corso ormai da troppi anni - non ce ne vogliano gli alfieri del politicamente corretto se lo mettiamo per iscritto - è uno scontro di civiltà. Tra «barbares» e «gwer», per dirla con le parole usate dai francesi. Dove entrambi, probabilmente, hanno le loro colpe.

Quelle dei «barbares» sono davanti agli occhi di tutti ogni volta che escono dalle banlieue per seminare terrore e distruzione. Quella dei «gwer» di non aver fermato i barbari per tempo. Anzi, in nome del buonismo, di averli blanditi, coccolati e addirittura assecondati.

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