In Nepal, molte delle insegne del potere sono andate in fumo in un solo pomeriggio. Il 9 settembre scorso, una serie di incendi coordinati ha devastato il cuore dello Stato: il Parlamento, la Corte Suprema, i ministeri di Singha Durbar e decine di uffici locali sono stati divorati dalle fiamme. Quella che in apparenza sembrava un’ondata di rabbia popolare, nata dopo l’uccisione di 19 manifestanti a Kathmandu il giorno precedente, si è presto rivelata un’operazione ben più complessa.
Gli scontri erano iniziati l’8 settembre, quando migliaia di giovani — perlopiù studenti e attivisti della cosiddetta “generazione Z” — erano scesi in piazza per protestare contro la corruzione e contro la nuova legge che imponeva controlli governativi sulle piattaforme social. Le forze di sicurezza hanno risposto con proiettili veri: secondo Human Rights Watch e l’agenzia Associated Press, almeno diciannove persone sono state uccise e centinaia ferite. Nelle ore successive, internet oscurato e la capitale si è spenta in un silenzio carico di tensione.
Il giorno dopo, poco dopo l’una del pomeriggio, gruppi di manifestanti si sono riversati nel complesso parlamentare. In meno di mezz’ora il Parlamento era in fiamme. Alle 15.00 ora locale, è toccato alla Corte Suprema. Venti minuti dopo, anche Singha Durbar, la sede dei principali ministeri, bruciava. In poche ore, le tre istituzioni cardine del potere nepalese erano ridotte in cenere. Testimoni e analisti del New York Times hanno notato che la velocità e la simultaneità degli attacchi erano incompatibili con un moto di folla improvvisato: serviva un alto grado di coordinamento, piani, mezzi, e conoscenze tecniche.
Le immagini dei palazzi in fiamme hanno fatto il giro del mondo. La sera stessa, il primo ministro K.P. Sharma Oli ha rassegnato le dimissioni. Tre giorni più tardi, l’ex giudice Sushila Karki ha assunto la guida di un governo ad interim, divenendo la prima donna premier del paese. Ma la crisi non si è placata. Le autorità hanno istituito una commissione d’inchiesta, ancora priva di risultati, mentre la polizia ha ammesso che nessuna analisi forense è stata condotta sui resti degli edifici incendiati. Secondo i laboratori ufficiali, i campioni di detriti non sono mai stati consegnati, e il tempo trascorso rende ora impossibile ogni verifica scientifica.
Intanto, le conseguenze economiche e amministrative del disastro sono pesantissime. Il Ministero delle Finanze ha stimato danni equivalenti a oltre un terzo del prodotto interno lordo nazionale. Centinaia di uffici pubblici operano in strutture temporanee, mentre i registri catastali e giudiziari sono stati distrutti, paralizzando la burocrazia. Le associazioni imprenditoriali denunciano un crollo degli investimenti e chiedono un piano di ricostruzione immediato. A un mese dai fatti, il clima resta cupo. I giovani che avevano animato la protesta si dicono delusi dalla lentezza delle riforme e dall’assenza di volti nuovi nella politica. La promessa di verità e giustizia si è scontrata con l’inerzia di un sistema giudiziario che potrebbe impiegare anni a produrre un verdetto.
La ricostruzione avanza lentamente, ma ciò che più preoccupa è la memoria di quel giorno. Nessuno ha ancora rivendicato gli incendi. Nessuna indagine indipendente è riuscita a stabilire chi abbia organizzato un’azione così precisa e devastante. C’è chi parla di un’operazione clandestina per destabilizzare il governo, chi di un’insurrezione popolare degenerata, chi di una strategia interna al potere stesso.
Quel che resta, a Kathmandu, è l’immagine di un paese che ha bruciato insieme alle sue istituzioni. Le fiamme del 9 settembre non hanno solo distrutto edifici: hanno consumato la fiducia dei cittadini in uno Stato già fragile, aprendo una ferita che il Nepal non ha ancora imparato a curare.