
Un Nobel per la pace davanti a una dittatura che tanti faticano a riconoscere. Questa non è solo la storia di una donna che sfida un regime. È la memoria di ciò che siamo stati, la fotografia di un mondo che tenta ancora di credere nella libertà.
María Corina Machado è la voce di un Paese che il mondo aveva smesso di ascoltare. In Venezuela da anni non si vota, si obbedisce. Il potere è diventato un feudo, un culto che brucia la fame e la paura. Machado ha scelto di non inginocchiarsi. È un ingegnere, una donna moderna, concreta, ma anche capace di una fede laica nella giustizia. È stata cacciata dal Parlamento, perseguitata, sorvegliata, minacciata. Ha visto i compagni di lotta scomparire, ma non ha mai accettato il silenzio.
Il Nobel è molto più di una medaglia. È una parola detta ad alta voce in un tempo di mormorii. È il riconoscimento che il chavismo non è una rivoluzione tradita, ma una dittatura compiuta. E uno può dire: non servivano gli svedesi a ricordarcelo. Ma serviva che qualcuno lo dicesse, ufficialmente, davanti al mondo. Perché ogni dittatura comincia nel momento in cui il resto del pianeta finge di non vedere.
È anche, in fondo, un Nobel alla democrazia occidentale. A quella vecchia, quella un po’ stanca, che nessuno ama più. Quella che tutti criticano, ma che ancora permette di parlare, di dissentire, di scegliere. È un premio dato alla parola “libertà” in un tempo che preferisce il comfort del conformismo.
Machado non è una santa né un’icona perfetta.
È una donna con la voce roca e lo sguardo duro, che ha imparato a sorridere mentre la minacciano. Sa che la politica è sporcarsi le mani, ma non si è mai lavata la coscienza. È diventata il simbolo di una resistenza senza eserciti, quella che si misura nei corpi che restano in piedi.