Scontro chiave nella Pokrovsk in fiamme

Battaglia sul campo e a colpi di propaganda. Mosca: "Accerchiata". Kiev: "Resiste"

Scontro chiave nella Pokrovsk in fiamme
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Tra la paura e il coraggio corre una linea invisibile. A Pokrovsk, nel Donbass, si consuma nel silenzio degli sguardi. Da oltre un anno la Russia tenta di conquistare questa città mineraria e ferroviaria, un nodo logistico cruciale che collega il fronte orientale ucraino con le retrovie. Ora, secondo Mosca, i primi soldati ucraini avrebbero iniziato ad arrendersi.
Il ministero della Difesa russo ha diffuso un video. Mostra prigionieri ucraini che parlano della resa. Tra loro ci sono Vyacheslav Krevenko e Stanislav Tkachenko, presi nei sobborghi della città. Sono stanchi, gonfi di lividi. Parlano piano, forse costretti a leggere un copione. Dicono che hanno combattuto tra le case, che le hanno trasformate in trincee. Poi raccontano di una decisione presa quasi all’unanimità: fermarsi per non essere macellati. «È inutile resistere. Il comandante ci ha traditi. Non abbiamo più forza. Questa non è una battaglia. È un suicidio di massa».
Versione che Kiev smentisce con forza. Ma lontano da lì, nei report del Kiel Institute, le parole sono diverse. Numeri e grafici raccontano un’altra storia: i camion che arrivano sono sempre meno, le casse di munizioni che non bastano più, i magazzini che si svuotano.
Pokrovsk, conosciuta fino al 2016 come Krasnoarmeysk, è più di un semplice punto sulla mappa. È un crocevia ferroviario e stradale che collega Kramatorsk e Dnipro, un nodo vitale per i rifornimenti ucraini e per la rotazione delle truppe sul fronte del Donetsk. Se cadesse, la Russia aprirebbe un corridoio diretto verso Ovest, spingendo il conflitto sempre più nel cuore dell’Ucraina industriale. Da settimane Mosca ammassa uomini nella zona: 170mila soldati contro 6mila. L’obiettivo è chiaro: stringere Pokrovsk in una morsa e spingere gli ucraini alla ritirata. Putin ha fissato anche la data della resa: il 15 novembre.
In risposta, l’intelligence militare ucraina ha avviato quella che a Kiev descrivono come una «complessa operazione di infiltrazione», perpetrata grazie a elicotteri Black Hawk. Le forze speciali del Gur sarebbero riuscite a penetrare in quartieri considerati sotto controllo russo, nel tentativo di riaprire corridoi di rifornimento e rompere l’assedio.
Un’operazione ad alto rischio, guidata direttamente dal capo dell’intelligence militare Budanov, giunto sul fronte per coordinare il contrattacco. La sua presenza sul campo ha reso ancora più evidente la frattura che si sta aprendo tra i vertici militari ucraini.
Tra il fumo dei combattimenti e le comunicazioni contraddittorie, prende forma un confronto interno che molti definiscono ormai una gara di comando. Da un lato il capo di Stato maggiore Syrskyi, che rivendica la supervisione delle operazioni difensive e nega ogni ipotesi di resa; dall’altro Budanov, che avrebbe assunto il controllo diretto del blitz.
Il risultato è un dualismo di leadership che potrebbe generare ambiguità nella catena di comando e sbriciolare le residue speranze di una controffensiva.
Ma il ministero della Difesa di Mosca sostiene che «l’operazione è stata sventata». Affermando che «tutti gli undici militari ucraini sbarcati da un elicottero a Nord-Ovest di Pokrovsk sono stati neutralizzati».

Per Kiev non sono altro che «menzogne propagandistiche», e nega sia la sconfitta delle proprie truppe speciali che l’accerchiamento della città. E sostiene di essere riuscita a migliorare la posizione tattica in diversi isolati della città.

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