Cronache

Abbiamo visto Maradona. E gli perdoniamo ogni cosa

I ricordi di un inviato che seguì il Pibe dall'82 al '94 Da Napoli ai Mondiali, "regalava gioia al pubblico"

Abbiamo visto Maradona. E gli perdoniamo ogni cosa

Diceva un grande di Bordeaux che siamo così ciechi da non sapere mai quando dobbiamo piangere e quando ridere, perché noi abbiamo sempre false tristezze e false gioie. Se hai visto Maradona, se pensi che abbia davvero cambiato la storia del calcio più che dello sport, adesso guardi il cielo e non sai davvero se ridere o piangere perché con questo artista geniale hai camminato per tanti anni, esaltandoti quando dipingeva su un campo di calcio, piangendo tutte le volte che bruciava se stesso, sapendolo.

Abbiamo passato la notte fermando le immagini sul film che Emir Kusturica ha messo insieme inseguendolo, spesso perdendolo per strada, proprio come noi a Barcellona, Napoli, in Messico, nel mondiale italiano dove i fischi all'inno lo fecero esplodere e poi quando la FIFA lo espulse, per doping, nel 1994 liberando dal pericolo Argentina il Brasile che tornava campione del mondo vincendo ai rigori contro l'Italia di Sacchi.

Per la chiesa maradoniana un complotto, come era già avvenuto quando gli stessi guai erano capitati a Napoli.

Lui con la cocaina, lo ha detto alla fine al grande regista, si è accorciato davvero la vita sul campo, ma in questa confusione non riusciamo a contraddire Pep Guardiola, poeta e calciatore, grande tecnico e buon interprete dell'arte calcistica: con Diego il calcio è andato oltre la siepe delle banalità, ha cambiato il modo di vederlo, soffrirlo, goderlo.

Pensando alla bara esposta alla casa Rosada di Buenos Aires ci è venuto in mente che una sensazione di sconforto così grande l'avevamo provata soltanto davanti all'obitorio dove avevano portato Ayrton Senna dopo lo schianto mortale in pista. Uomini, un brasiliano e un argentino, per cui vale la pena soffrire, anche quando ti dicono che sei soltanto un cronista sportivo e devi lasciare la poesia agli altri.

Eravamo a Barcellona quando Ferlaino aveva convinto Jorge Cysterpiller, il suo vero angelo custode negli anni in cui fu manager e fratello, a rompere con il Barcellona con la stessa violenza del basco che lo aveva mandato all'ospedale dopo le meraviglie blaugrana del 1982. Quella casa, quella processione di camerieri, ortolani, macellai, nel buio, mentre con Antonio Corbo cercavamo l'anima nuova di Maradona. Il viaggio in aereo, quello stadio pieno che aspettava il suo genio della lampada.

Due anni di meraviglie allenandosi anche in cantina come dice Ferrara, il fratello acquisito nella gloria del Napoli campione. Lo avevamo lasciato al Sarria quando Gentile dimostrò che si possono anche fermare gli dei facendoci discutere con Beppe Viola che era anima grande, un genio che nel 1978 già ci decantava il professor Oliva anche se Menotti pensava che fosse ancora tenero per stare davanti ai suoi campioni del mondo. In Spagna era il suo momento, ma Bearzot aveva trovato la rete per fermare prima lui e poi i brasiliani di Falcao. Doveva aspettare, dovevamo tutti aspettare. Quattro anni. Quando atterrammo in Messico, dove arrivammo dopo una stagione tormentata del basket, chi guidava la spedizione ci spedì a Queretaro dove c'era la Germania che sognava la finale sentendo alla radio troppe volte il nome di Maradona che poi, infatti, fu il loro incubo nella sfida decisiva .

Nei quarti di finale ritorno a Città del Messico fra svenimenti per l'altura, proprio come alle Olimpiadi del 1968, sognando e pregando di poter essere in tribuna per vederlo Maradona. Accadde. Storia e da quel giorno uno poteva andare in giro cantando: l'ho visto, io c'ero e in quel momento sembrava davvero che fosse meglio di Pelè come poi sostennero i fedeli della chiesa maradoniana. Sul gol con la mano non si accorse quasi nessuno e non lo teniamo nel cuore, anche se dentro c'era astuzia, vecchio calcio, voglia di guerra e di vendetta per la guerra di guerra non tanto lontana delle Falkland-Malvinas.

Il gol del secolo arrivò dopo portando uno strano silenzio fra le mura della cattedrale messicana. Tutti avevano la loro moviola interiore e se sapevi ascoltare sentivi la voce del telecronista argentino Victor Hugo Morales: La va a tocar para Diego Diegol. Grazie a Dio, per il calcio, per Maradona, per queste lacrime, per questa Argentina.

Stupore, meraviglia, e Tony Damascelli quando voleva farmi arrabbiare domandava sempre, ma voi, negli altri sport, momenti così li avete avuti? Tanti. Ma certo quello era il momento che non avresti mai dimenticato. Poi il Maradona per Burruchaga nella finale visto in mondovisione.

Quella danza da slalomista, che ci portava al freddo fra Thoeni e Gross, era invece calore vitale, da tenersi per sempre, cercando di non dimenticarlo mai, anche quando quattro anni dopo, nel mondiale italiano che vinsero i tedeschi, don Diego ci fece pentire per tanto amore perché nel crudele incrocio del San Paolo lui aveva portato i fedeli napoletani e italiani della sua chiesa, quelli che ancora festeggiavano lo scudetto, a tifare contro gli Azzurri. Amicizie e matrimoni frantumati, una storia difficile da raccontare perché da una parte c'era il re e dall'altra i figli di una scuola calcistica che sognava di incatenarlo come al Sarria otto anni prima. Non avvenne. Argentina in finale. Altro tormento perché al momento degli inni partirono i fischi vendicatori e lui divenne l'orco Maradona che liberava come sempre la sua rabbia contro tutto e tutti, incapace di nascondere sentimenti e odio. L'insulto prima della vittoria tedesca. Dopo fu quasi sempre nero di seppia, cocaina, arresto, una via di fuga a Siviglia, la speranza che l'atmosfera che si respirava nel sacrario del Boca potesse ridargli ispirazione. Lo perdemmo di vista, ma per noi era quello che aveva rivoluzionato il modo di essere un campione sul campo, purtroppo anche fuori. A gente come Diego, però, perdoniamo tutto. Ci ha dato gioia.

Per sempre.

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