Un'altra leggenda di Hollywood scompare e ha il nome di Burt Reynolds, uno dei degli attori americani più popolari tra gli anni Settanta e gli Ottanta del Novecento, quando film, con lui protagonista, come Boogie Nights. L'altra Hollywood, Quella sporca ultima meta, Un tranquillo weekend di paura e Smokey and the Bandit facevano sognare le platee di mezzo mondo. L'interprete, ritenuto un sex-symbol per la fisicità fortemente mascolina, è morto in Florida, allo Jupiter Medical Center, stando alle dichiarazioni del suo manager, Erich Kritzer. Nominato agli Oscar nel 1997, per il suo ruolo in Boogie Nights, Reynolds ha goduto d'una carriera incredibile, spalmata su sette decadi (oltre settanta i film), volendo includere le sue ultime apparizioni in Deliverance. Il suo agente Todd Eisner ha semplicemente detto: «No comment, si è trattato di un infarto». Apprendendo della sua morte, Arnold Schwarzenegger ha twittato: «Burt Reynolds era uno dei miei eroi. Ha mostrato la via della transizione da atleta ad attore tra i meglio pagati e mi ha sempre ispirato. Aveva anche un grande senso dell'umorismo. I miei pensieri vanno alla sua famiglia».
Nella sua autobiografia, intitolata «But Enough About Me», l'attore scomparso ha lasciato scritto: «Bene. So di essere vecchio, ma mi sento giovane. E c'è una cosa che nessuno potrà mai portarmi via: nessuno si è divertito più di me».
Burt era anche celebre per aver rifiutato ruoli prestigiosi: da Han Solo a John McLaine in Die Hard, fino a Qualcuno volò sul nido del cuculo, poi magnificamente interpretato da Jack Nicholson, i suoi grandi no non si contano. Un'icona del cinema internazionale, al pari di Clint Eastwood del quale era ottimo amico. «Siamo stati licenziati nello stesso giorno. Mi hanno licenziato perché parlavo troppo lentamente e lui perché il suo pomo d'Adamo andava orribilmente su e giù, troppo in fretta». Entrambi latin lover, certamente, ma Burt Reynolds ingranava una marcia più romantica, rispetto all'ispettore Callaghan. Come quando confessò il suo romanzo d'amore con la collega Sally Field, alla quale si legò tra la fine dei settanta e i primi Ottanta. «Mi manca tremendamente. Ancora oggi, per me è difficile vivere senza di lei. Non so perché sono stato tanto stupido da lasciarla, ma gli uomini sono fatti così», rivelò a Vanity Fair.
Nato a Lansing, nel Michigan, l'11 febbraio del 1936, Burt aveva radici inglesi, irlandesi, scozzesi e Cherokee. Nel 1946 la sua famiglia si trasferì a Riviera Beach, in Florida, mentre suo padre Burton Milo diventava capo della polizia locale. Dopo aver studiato alla Florida State University, Burt si rivelò una promessa del football, che abbandonò per vari infortuni al ginocchio. Dicendo addio alla carriera di calciatore, Reynolds avrebbe voluto diventare poliziotto come suo padre. Dato il fisico, prese in considerazione la carriera di attore: fu Joanne Woodward ad aiutarlo a trovarsi un agente. Dopo il debutto a Broadway, con Look, We've Come Trough, ottenne critiche positive che lo incoraggiarono a proseguire. Dopo diversi lavori, da cameriere a camionista, Reynolds cominciò a lavorare i tv nei tardi Cinquanta, debuttando con Angel Baby. Seguirono alcuni ruoli in spaghetti-western come Navajo Joe di Sergio Corbucci (1966), finché Albert Broccoli lo convocò per interpretare James Bond.
«Un americano non può interpretare James Bond», rispose, confermando la sua fama di «Mister No».A Quentin Tarantino, però, aveva detto sì: doveva apparire nell'erigendo Once Upon a Time in Hollywood, il film su Charles Manson, dove doveva essere George Spahn, allevatore cieco di Los Angeles.
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